Baci che sanno di polvere da sparo

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    Mi stavo quasi per dimenticare di metterla dopo le mille volte che dico a Marikawa che l'avrei postata!
    Beh, che dire, spero che piaccia anche questa mia nuova storia :) Per il momento metto il capitolo 1, gli altri a seguire in questi giorni ;)
    Su EFP trovate già i primi tre capitoli ;)

    Capitolo 1


    Come ogni mattina, Daniele si svegliò alle sette in punto al suono della sveglia che spense immediatamente per evitare di disturbare sua madre. Sapeva quanto le desse fastidio sentire dei rumori la mattina presto. Lavorava come cameriera al piccolo pub del quartiere e le toccavano sempre i turni serali perché era l’unica ad avere un figlio autosufficiente che non aveva bisogno di lei la sera. Silenzioso come al solito si diresse in bagno per farsi una doccia veloce. Anche quella notte aveva avuto degli incubi e si era risvegliato tutto sudato. Indossò un paio di jeans lisi e una maglietta troppo grande per lui. Suo padre era morto quando aveva dieci anni e lo stipendio di sua madre non permetteva loro di vivere nel lusso, oltretutto il fatto che fosse decisamente magro per i suoi diciannove anni di età non aiutava affatto.
    Si sistemò alla bell’e meglio i corti capelli castani e uscì di casa, richiudendosi la porta alle spalle. La fermata dell’autobus era solo a qualche metro di distanza da casa sua, ma gli era sempre piaciuto camminare, ecco perché ogni mattina si svegliava così presto. Per arrivare all’università impiegava quaranta minuti buoni.
    Percorse il solito viale alberato, giocando per un po’ a non calpestare le righe tra una mattonella e l’altra del marciapiede. Questo lo aiutava a rilassarsi e a non pensare alla sua vita, che tutto sommato non reputava così male. Se solo il suo amico Alessandro l’avesse pensata allo stesso modo.
    Ale, così lo chiamava fin dal primo giorno di liceo in cui si erano conosciuti, comparve come per magia, quasi come se pensando a lui lo avesse chiamato.
    “Ehi amico, anche oggi a piedi?” Non era una vera domanda, come ogni migliore amico che si rispetti conosceva Daniele come le sue tasche. C’era stato un tempo, qualche anno prima, in cui avrebbe davvero voluto conoscerlo ancora più a fondo, ma aveva ricevuto un due di picche. Daniele era troppo insicuro e non se la sentiva di mettere alla prova la loro amicizia. La sua unica amicizia.
    “Sì, lo sai che mi piace farmi due passi e poi oggi c’è un sole stupendo.” Gli rispose alzando lo sguardo verso il cielo, schermandosi gli occhi azzurri dal sole con la mano. Gli piaceva osservare il cielo, era così vasto, in un certo senso lo faceva sentire forte. Molta gente sosteneva che contemplare la vastità del cielo o del mare la faceva sentire piccola e insignificante, ma secondo lui sbagliavano. La natura era lì per loro ed era una cosa meravigliosa, solo guardarla lo faceva sentire pieno e felice. Contrariamente agli spazi ristretti e claustrofobici.
    “Dani, siamo in estate, è ovvio che ci sia il sole.”
    Daniele scosse la testa davanti alle risposte sempre allegre dell’amico.
    “Com’è andata ieri? Tua madre si è arrabbiata?”
    “No, tutto bene.” Gli rispose cercando di sviare lo sguardo. Non gli piaceva quando Alessandro indagava in quel modo facendogli delle domande, odiava e non sapeva mentire. In compenso era diventato un maestro nell’arte del minimizzare.
    “Significa che se ti alzo la maglietta non vedrò niente che non dovrebbe esserci?” gli rispose l’amico, già con le mani protese per afferrare il bordo di stoffa.
    Daniele lo bloccò subito. “Dai, lascia stare. Ti ho detto che non è successo niente.”
    Alessandro sospirò sconfitto.
    Purtroppo Daniele subiva quotidianamente abusi e maltrattamenti da parte della madre, ma non gliene faceva una colpa. La morte di suo padre era stato un duro colpo per lei. Qualche livido ogni tanto non era nulla. Era capitato solo una volta o due di ritrovarsi qualche osso rotto.
    Alessandro c’era sempre stato per lui.
    “Ehi, stasera vieni a dormire da me per festeggiare insieme il primo mese di università?”
    L’università. Aveva fatto il test d’ingresso in gran segreto, non sapendo né se sarebbe stato preso né se la madre gli avrebbe permesso di frequentarla. L’aveva fatto più che altro per sentirsi normale, tutti i liceali dopo la maturità si iscrivevano all’università e a dirla tutta era stato Alessandro a trascinarlo a fare il test. Lo aveva preso in giro per giorni e giorni, accusandolo che se la stava semplicemente facendo sotto, senza motivo per giunta visto che la sua vita ruotava intorno ai libri. Alla fine era andato tutto per il meglio: aveva passato il test a pieni voti e la madre non aveva opposto resistenza, forse era perfino orgogliosa di avere un figlio intelligente.
    “Mmm, Ale non lo so. Queste cose a mia madre dovrei dirgliele con anticipo…” l’ultima volta che aveva chiesto a sua madre di poter andare da Alessandro senza avvertirla come minimo il giorno prima si era beccato una tremenda sfuriata e oltre ad avergli negato il permesso era andato a letto senza cena, a detta di lei per avere più tempo a disposizione per riflettere sulle sue mancanze come figlio.
    “Va bene, va bene. Però almeno prova. Fammi sapere!”
    Alessandro si era convinto di essere il suo salvatore, che era la missione della sua vita migliorare la quella di Daniele e liberarlo dalle grinfie di quella strega di sua madre, così la chiamava lui. Quello che non capiva era che la strega era l’unico membro della sua famiglia rimastogli. Quando era piccolo, poco dopo aver perso il padre aveva tentato varie volte di chiedere perché lui non avesse dei nonni o degli zii come tutti gli altri bambini, ma le risposte della madre erano sempre molto vaghe. Sulla famiglia aleggiava un’aura di mistero che preferiva non indagare.
    Erano arrivati davanti l’ingresso principale dell’università e si erano dovuti separare perché frequentavano corsi differenti. Alessandro aveva preso gli studi ingegneristici, mentre lui studiava lingue e letterature. Gli sarebbe piaciuta la facoltà di medicina, ma sarebbe venuta a costare troppo tra tasse e costi dei libri. La medicina, però, era rimasta il suo hobby, insieme alla lettura ovviamente. Così ogni momento libero lo trascorreva in biblioteca, dove poteva nascondersi tranquillo sia da sua madre, per non disturbarla, sia dalla gente. Poteva benissimo essere considerato un solitario, ma la cosa non gli dispiaceva, stava bene con se stesso.
    Quel giorno doveva seguire poche lezioni, la prima delle quali era storia medievale, una materia in comune con il corso di scienze storiche. Il suo corso.
    Daniele prese posto e da bravo ragazzo, lievemente affetto da un disturbo ossessivo compulsivo, scelse il posto dove si sedeva sempre, quello in prima fila vicino alla finestra. Alessandro aveva cercato di guarirlo anche in questo, cercando anche di convincerlo a vedere qualcuno di competente, come uno psicologo. Lui aveva più volte rifiutato storcendo il naso, non voleva sentirne parlare, secondo lui gli psicologi erano solo dei ciarlatani. Che potevano saperne loro di tutto quello che aveva passato e passava ogni giorno? E poi lui stava bene così. Sì, era claustrofobico perché era nella macchina insieme al padre nell’incidente stradale che lo aveva ucciso ed era rimasto ore intrappolato insieme al cadavere muto del genitore prima di essere salvato. Sì, soffriva lievemente di un disturbo ossessivo compulsivo perché da quando era morto il padre la vita che conosceva era crollata e si era frantumata in mille pezzi come uno specchio, quindi aveva bisogno di un po’ d’ordine nella sua vita. E gli attacchi di panico ormai accadevano sempre più di rado. Ma alla fine a chi importava? Non faceva del male a nessuno.
    Era intento a sistemare il quaderno degli appunti e le penne sul banco quando entrò la persona che affollava tutti i suoi pensieri e fantasie: Marco.
    Marco era il suo esatto opposto: ricco, sempre circondato dalla gente, sicuro di sé e talentuoso. Non per niente apparteneva all’élite, alla casta del Fuoco, mentre lui era solo un semplice e comune umano. Anche Alessandro era un umano, però una delle sere in cui era andato a dormire da lui gli aveva confidato di essere andato a letto con una ragazza appartenente alla casta dell’Aria. Sesso stratosferico a detta sua.
    Prima che potesse essere sorpreso a fissarlo spudoratamente, distolse lo sguardo e lo fissò sul foglio bianco davanti a lui. La mente però continuava a pensare a quegli occhi verdi come smeraldi e al profilo duro della mascella. Lo aveva visto per la prima volta il giorno del test e poi il primo giorno dell’università e così via. In meno di una settimana era diventata la sua cotta segreta di tutta la vita.
    La lezione si svolse senza intoppi e allo scoccare delle due ore rimise tutto nello zaino e si avviò fuori dall’aula per raggiungere quella di Alessandro visto che avevano entrambi un’ora di pausa prima della lezione seguente.
    Stava camminando a testa bassa, senza incrociare gli occhi di nessuno, per questo non si accorse della persona che gli stava venendo incontro. Seppe di essere andato addosso a qualcuno solo quando si ritrovò a gambe all’aria e con l’osso sacro dolorante.
    “Attento a dove cammini!”
    “Sc-scusa.” Mormorò piano.
    Era rosso di vergogna, odiava attirare l’attenzione e fare un volo per terra in mezzo al corridoio dell’università era l’esatto contrario di mantenere un profilo basso. Alzandosi barcollante si rese contro che quella tremenda figuraccia l’aveva fatta sotto gli occhi di Marco che lo guardavano deridendolo.
    Perfetto.
    Strinse i denti cercando di non dare a vedere il proprio senso di umiliazione. Non dovette fare una grossa fatica perché ben presto Marco si allontanò da lui, ignorandolo e sorpassandolo.
    Per lui è come se non esistessi.
    Girò l’angolo, aspettando di non essere più sotto lo sguardo di tutta quella gente per massaggiarsi la parte lesa. Ormai si era abituato al fatto di essere decisamente delicato, quella sera si sarebbe ritrovato con un livido viola grande come un pugno. Represse un gemito al solo pensiero.

    Fortunatamente la mattinata era trascorsa senza altri incidenti, ma non era più riuscito ad intravedere Marco nemmeno una volta. In compenso aveva fatto un colpo di telefono alla madre, sapendola ormai sveglia, per chiederle il permesso di andare da Alessandro. Si era stupito quando le aveva risposto affermativamente, probabilmente l’aveva colta in uno dei rari momenti di buon umore, oppure quella sera voleva portarsi a casa uno dei tanti uomini rimorchiati al pub e quindi non voleva avere il figlio in mezzo ai piedi. Daniele aveva rilasciato un sospiro sconsolato dopo aver riattaccato. Sapeva perché la madre faceva in quel modo, gliel’aveva confessato quando aveva quattordici anni, dopo che tornato dal liceo l’aveva informata che avevano avuto una lezione sul sesso sicuro. Lei da brava madre l’aveva preso da parte sul divano non ancora consunto e gli aveva spiegato come funzionavano le cose, come mettere un preservativo e ci mancò poco che descrivesse nei dettagli come far godere una donna. A Daniele non aveva nemmeno sfiorato il pensiero di confessarle di essere gay. La madre aveva poi continuato dicendo di non permettere mai di far entrare in gioco i sentimenti durante il sesso, di non ripetere i suoi stessi errori. Gli spiegò dopo un attimo di pausa che si riferiva a suo padre, lei lo aveva amato e lui in cambio l’aveva lasciata lì sola con un figlio a carico.
    In quell’occasione Daniele aveva cercato di far ragionare sua madre, ma come gli aveva spiegato più volte il medico la donna si rifiutava semplicemente di accettare la realtà, quindi per lei il marito non era morto, se n’era andato e lei andava a letto con chiunque le andasse abbastanza a genio per ripicca, per fargli vedere quando sarebbe tornato che non si piangeva addosso per la sua assenza.
    Daniele si caricò lo zaino in spalla per raggiungere Alessandro e metterlo al corrente della bella notizia. Si era anche fatta ora di pranzo e stava morendo di fame.
    “Eccoti qui. Allora, come sono andate le lezioni?” lo salutò l’amico dandogli una pacca sulla spalla.
    “Ehi, Ale, lo sai che poi mi viene il livido. Già ce ne ho uno assicurato.”
    Alessandro strabuzzò gli occhi “Cosa hai combinato questa volta?”
    “Sono caduto” borbottò Daniele tra i denti.
    “Ma cosa devo fare con te? Ci rinuncio, tanto ti faresti male anche se ti sfiorasse una piuma.”
    “Ah-ah. Molto divertente. Non scherzarci su troppo che potrebbe anche succedere. Comunque andiamo al bar che sto morendo di fame!”
    Il bar fuori dall’università era una loro tappa fissa alla fine delle lezioni, sia che fosse mattina, ora di pranzo o la sera tardi. Si sedevano lì per chiacchierare del più del meno e per raccontarsi le cose dell’università. Alle volte ci studiavano anche perché Alessandro voleva evitare che Daniele passasse tutto il suo tempo recluso nella biblioteca.
    Andarono al bancone e ordinarono un panino al prosciutto e un succo d’arancia, considerando quanto fosse cagionevole un po’ di vitamine in più potevano fargli solo che bene. Era ancora presto e il bar non era affollato come nell’orario di punta, perciò vennero serviti abbastanza velocemente. Preso il proprio ordine Daniele si voltò senza guardare, tenendo lo sguardo sul bicchiere per evitare di versarne il liquido. Per la seconda volta in quella giornata andò contro qualcuno, rovesciandogli addosso più della metà del contenuto del bicchiere. Se in un primo momento era sbiancato per il danno fatto, dopo era diventato muto e pallido come un morto.
    Era andato addosso a Marco. Un Marco che ora lo guardava decisamente arcigno, tenendosi la camicia azzurra tutta zuppa di succo scostata dalla pelle.
    “I-io… scusa, mi dispiace. Io…”
    “Sì, non fa niente.” Gli sputò rabbiosamente in faccia Marco facendo dietro front e uscendo dal bar, probabilmente per andarsi a cambiare da qualche parte. Come minimo gli sarebbe bastato buttare quella camicia e comprarsene un’altra ancora più costosa in un qualsiasi negozio della via universitaria.
    Alessandro aveva assistito per tutto il tempo alla tragedia personale dell’amico. Non ne parlavano molto, ma ai suoi occhi era palese cosa provasse Daniele per quell’antipatico di Marco.
    “Dai non pensarci, non è successo niente di che.” In fondo se Marco non ricambiava i sentimenti di Daniele tanto di guadagnato per lui, avrebbe significato continuare ad avere l’occasione di conquistare il cuore del suo migliore amico e poter fare qualcosa di più che semplicemente dormire quando erano sotto le stesse lenzuola a casa sua.
    Daniele annuì mogio. Prima sono caduto come una pera cotta ed ora questo, potrebbe andarmi peggio di così? In effetti di lì a poco le cose peggiorarono ancora un po’ perché l’osso sacro aveva iniziato a fargli davvero male e gli dava fastidio camminare. Cercava di non darlo a vedere, sorridendo spensierato ad Alessandro, ma stava diventando sempre più difficile e aveva bisogno di una pausa.
    “Ale, aspetta. Sediamoci un attimo su quel muretto.”
    “Alleluia! Era ora! Sei proprio cocciuto come un mulo. Ero proprio curioso di sapere quando saresti arrivato al limite! Sono dieci minuti che cammini tutto storto, ci manca solo che inizi a zoppicare. Si può sapere perché non hai voluto prendere l’autobus?!”
    A Daniele non gli andava di discutere con Alessandro. Quando erano usciti dal bar si erano subito incamminati verso casa di Alessandro. Quest’ultimo aveva proposto di andare per un pezzo nella direzione opposta per arrivare alla fermata dell’autobus ed evitare di farsela a piedi, ma ovviamente Daniele si era rifiutato preferendo camminare. Aveva davvero pensato che fosse una buona idea, che quella caduta gli avrebbe causato solo un livido e nulla più, invece dopo un po’ che avevano iniziato a camminare aveva cominciato a sentire un leggero fastidio che era sfociato in un dolore sordo. Perfino il bordo dei jeans che strusciava sulla parte contusa gli faceva male ed ora era troppo tardi per cambiare idea e prendere l’autobus. Tornare indietro e rifarsi tutto quel pezzo di strada era fuori questione e il prossimo sarebbe comunque passato solo di lì a un’ora.
    “Dai, Ale. Non arrabbiarti, non pensavo fosse così brutta. Su, mi sono riposato, possiamo andare.”
    Una leggera fitta lo trafisse appena si rimise in piedi e mascherò la smorfia con un sorriso, sapendo benissimo che all’amico non gliel’aveva data a bere.
    “La prossima volta che vuoi soffrire dimmelo che ti meno direttamente io e ci risparmiamo del tempo.” Lo minacciò l’amico imbronciato.
    “Uffa, quanto la fai lunga. E poi dobbiamo passare dalla videoteca per il film, no? Se fossimo andati con l’autobus ci saremmo comunque dovuti rifare un pezzo indietro a piedi visto che la fermata è dopo casa tua e la videoteca prima.” Il ragionamento filava, se non fosse stato per un piccolo dettaglio che Alessandro non ci mise molto a fargli notare.
    “Sì, ma tu saresti stato comodamente dentro casa con la borsa del ghiaccio sul sedere e io sarei andato a prendere il film. Tanto lo so cosa vuoi vedere, l’ultimo film sdolcinato che è uscito da poco e che tua madre non ti ha fatto andare a vedere al cinema.”
    “Mi conosci proprio bene, eh?” lo stuzzicò Daniele cambiando argomento.
    Qualche metro dopo i due vennero affiancati da una macchina che Daniele conosceva fin troppo bene. Quella stupenda Maserati nera, sempre tirata a lucido, apparteneva a Marco. In preda al panico iniziò a tirare la manica della maglietta di Alessandro che non si era accorto di niente. Quando finalmente riuscì a richiamare la sua attenzione gli fece cenno di fare cambio posto, Alessandro dalla parte esterna e lui da quella interna, sperando con tutto se stesso di non essere visto. Perché diavolo sta andando così piano con una macchina come quella? Si è accorto che ci sono io e vuole essere ripagato per la camicia?
    In risposta ai suoi pensieri il finestrino del passeggero si abbassò e risuonò dall’abitacolo la voce profonda di Marco, il timbro di quella voce gli trasudava sesso, anche se Daniele non sapeva cosa fosse il sesso, era ancora vergine.
    “Perché cammini a quel modo?”
    Daniele rimase di stucco e non seppe cosa rispondere. Innanzitutto se gli stava chiedendo una cosa del genere significava che l’aveva osservato abbastanza da notare l’andatura claudicante. Non sapeva se esserne felice o se volersi sotterrare dalla vergogna. Quella giornata non sembrava avere fine.
    “Ehm io…”
    “Cosa vuoi da Daniele? Ci ha pensato bene il tuo amico a ridurlo così, non ha bisogno anche del tuo interessamento!”
    Daniele guardava nervoso Alessandro e Marco. Tipico di Alessandro fare il cavaliere sul cavallo bianco che corre in suo soccorso. In effetti non aveva dato mostra di sapersela cavare da solo, aveva balbettato come uno stupido. Non poteva farci niente se solo vedere quei pozzi verdi lo mandavano in confusione e gli attorcigliavano la lingua. Tuttavia Marco, ignorando completamente Alessandro, continuò a parlare rivolgendosi a Daniele.
    “È stato Luca quando ti è venuto addosso?”
    Quella sì che era un’altra bella sorpresa, si ricordava perfino del capitombolo nel corridoio.
    “Già… ma non è nulla di che, devo solo metterci un po’ di ghiaccio, un po’ di riposo e passa tutto…” Che stupido che sono, come se gliene importasse qualcosa! Si maledì mentalmente facendo a Marco un sorriso timido.
    “Capisco. Salite, vi accompagno io.”
    I due amici si guardarono stupefatti e guardinghi, ma il ragazzo alla guida li guardò con uno sguardo che non ammetteva repliche pertanto salirono dietro in religioso silenzio, preferendo rimanere zitti. Non ebbero nemmeno bisogno di indicargli la strada, sapeva perfettamente l’indirizzo. Così cinque minuti dopo, invece di trenta, si ritrovarono davanti l’uscio di casa di Alessandro. Daniele aveva cercato di ringraziare Marco, ma questo era sgommato via con un semplice cenno del capo non appena i due avevano messo piede a terra.

    In un paio di giorni il livido aveva assunto un colore giallo verdognolo, segno che stava guarendo bene. Nemmeno camminare gli faceva più male. Daniele era in biblioteca a tradurre il compito assegnatogli il giorno prima dal professore; Alessandro era beatamente a dormire a casa perché quel giorno non aveva lezioni, l’unica che aveva era stata annullata dal suo professore all’ultimo minuto.
    Felicemente assorto in quel mondo fatto di lettere non si accorse che Marco era solo qualche tavolo più in giù, in compagnia di Luca, a quanto pare stavano studiando anche loro. Avendo finito con il libro che stava usando decise di rimetterlo a posto visto che avrebbe dovuto prenderne un altro in consultazione. Era un abitudine rimastagli da quando era piccolo, era stato il padre a insegnargli che prima di iniziare a fare qualcosa bisogna sistemare prima quello che si stava facendo. Come ogni genitore che cerca di educare il proprio figlio ancora bambino, quella massima era rivolta ai giocattoli sparpagliati sul pavimento, ma Daniele, crescendo, l’aveva applicata ad ogni altra situazione. Probabilmente rientrava sempre nel meccanismo del suo disturbo, niente doveva essere fuori posto, tutto andava sistemato. Purtroppo si accorse che il libro andava riposto su un ripiano decisamente fuori dalla sua portata. Quando l’aveva preso dalla bibliotecaria era ancora sul carrello dei libri che andavano riposti nella propria sezione, quindi non aveva dovuto faticare. Invece adesso si trovava di fronte a un gran bel dilemma. Non venendogli altro in mente tornò al tavolo per prendere la sedia dai braccioli e portarla davanti allo scaffale per poi salirci sopra e sistemare il libro. Non ebbe, però, l’accortezza di fare due viaggi e traballava non poco a tenere sollevata la sedia avendo la mano destra occupata sia dal manuale che dal bracciolo. Era ancora a metà del viaggio che una voce lo sorprese alle spalle, tanto da fargli perdere la presa sulla sedia che cadde con un tonfo sordo. Si voltò rosso come un pomodoro per fronteggiare Marco.
    “D-devo mettere a posto questo libro ma non ci arrivo.” Patetico. Questo era quello che pensava Daniele di se stesso ed era convinto che anche Marco lo pensasse. Lo fissava con un sopracciglio alzato, quasi commiserandolo.
    “Dà qua, faccio io.” Gli prese il libro, lesse veloce il codice scritto sulla costa e lo rimise a posto.
    “Grazie.” Rispose Daniele alla schiena di Marco che già se ne stava andando. Il ragazzo sospirò e tornò al proprio posto, riposizionando la sedia e risprofondando in essa. Sfortunatamente quella mattina non era riuscito a fare colazione. La madre era tornata a casa proprio mentre lui stava per addentare la prima fetta biscottata con sopra la marmellata di marroni, la sua preferita. Lo aveva sgridato dandogli dello scansa fatiche, che se non voleva andare all’università tanto valeva che si ritirasse e le facesse risparmiare i soldi. Daniele non aveva avuto altra scelta se non mollare tutto e uscire di casa, assicurando la madre che avrebbe studiato sodo per poi trovare un buon lavoro e aiutarla con le spese. Il problema era che adesso gli stava venendo un forte mal di testa e aveva le vertigini a causa della pressione bassa. In qualche modo doveva raggiungere le scale, scenderle senza cadere e senza rompersi l’osso del collo per colpa dei capogiri e prendere qualcosa alle macchinette del piano terra. Più facile a dirsi che a farsi.
    Sono uno stupido! Ma non potevo prendermi qualcosa prima di ridurmi in questo stato?
    Lentamente raggiunse la scalinata e si poggiò quasi di peso sul corrimano. Odiava quel lato di sé, quello debole e patetico. Prese a scendere lentamente, come se ogni passo andasse attentamente studiato. In realtà gli costava solo un’enorme fatica mantenere la mente concentrata su quello che stava facendo. Pochi gradini e avrebbe raggiunto la salvezza, ne mancavano solo tre. Due… prima di riuscire a mettere piede sull’ultimo, la gamba d’appoggio non lo resse e si sentì paurosamente catapultato in avanti. Era pronto al dolore, il dolore non gli faceva paura, lo conosceva, sapeva sopportarlo, ma non arrivò. Con lo sguardo un po’ annebbiato si rese conto che qualcuno l’aveva afferrato all’ultimo secondo e adesso lo stava adagiando delicatamente al suolo. Alle orecchie gli arrivava indistinta una conversazione, come un ronzio di sottofondo.
    “Ma che palle. Certo che questo mica ci rende la vita facile.”
    “Sta zitto. Piuttosto vai a prendere qualcosa a quelle benedette macchinette.”
    L’ultimo che aveva parlato si accucciò davanti a lui e gli schiaffeggiò piano le guance nel tentativo di farlo riprendere. Non sapeva perché, ma le voci gli sembravano familiari, tuttavia sentiva il cervello troppo annebbiato per dare un volto a quei timbri vocali. Daniele chiuse gli occhi, cercando di schiarirsi le idee, ma quando li riaprì non vide nessuno, solo un succo di frutta e una brioche poggiati affianco a lui.

    Ci aveva messo un po’ di tempo a riprendersi, risalire le scale, radunare la propria roba e tornare a casa per finire di studiare in tutta tranquillità. La madre non c’era e aveva a disposizione la cucina in caso avesse avuto nuovamente un calo di zuccheri. Purtroppo si sentiva lo stomaco chiuso perché continuava a rimuginare su quanto gli era successo. Perché chi lo aveva aiutato e salvato non si era fermato ad accertarsi che stava veramente bene? Perché non aveva voluto rivelare la propria identità?
    “Ti sto dicendo che qualcuno mi ha aiutato! Se non addirittura salvato la vita!”
    Era mezz’ora che Daniele stava parlando al telefono con Alessandro, il quale non voleva credergli e stava cercando di convincerlo che era stato tutto frutto della sua mente stanca. Secondo lui, Daniele era riuscito ad arrivare alle macchinette, si era comprato da mangiare e poi era svenuto nel tentativo di risalire le scale. Nessun aiuto, aveva fatto tutto da solo.
    “E allora come spieghi le voci che ho sentito? Mi stai dando del pazzo?”
    Daniele non riusciva a credere che proprio il suo migliore amico non volesse fidarsi della sua parola ed era molto strano che avendogli raccontato di essere quasi morto cadendo dalle scale l’unica cosa che aveva da replicare era che si era immaginato tutto per la stanchezza. Nessuna sfuriata, nessuna ramanzina tipica della sua iperprotettività. Qualcosa non quadrava.
    “Senti, mi dispiace. Dai, pensa soltanto al fatto che è andato tutto per il meglio e ora stai bene! Scusa, ma è tornato mio padre e devo attaccare. Ci vediamo domani in facoltà!”
    Senza nemmeno dargli il tempo di rispondergli, gli aveva attaccato il telefono in faccia. Daniele dovette arrendersi. Forse il suo amico aveva semplicemente avuto un giorno no e non aveva voglia di parlare, tagliandola per le corte. Gettò il cellulare sul materasso del letto e andò in bagno per farsi una doccia calda rilassante e per lavare via la stanchezza e la tensione della giornata. Si insaponò con cura, sciacquando e risciacquando i capelli castani, eredità di suo padre. Finita la doccia si avvolse nell’accappatoio di spugna azzurro, stando ben attento a non bagnare quello rosa della madre. Non apprezzava uscire dalla doccia e ritrovarselo umido perché lui era stato disattento. Anche questo è colpa di tuo padre, non ti ha educato bene! Glielo ripeteva sempre.
    Prese il suo adorato pigiama di flanella da sotto al cucino, dove lo riponeva ogni mattina prima di rifare il letto, e se lo mise. Adorava quel tessuto, non era mai freddo, mentre l’estate lo manteneva fresco. Aveva una pelle sensibile. Si sedette sul letto a gambe incrociate, con lo sguardo rivolto all’esterno, attraverso la finestra posizionata proprio sopra il letto. Anche il cielo notturno era uno spettacolo unico da ammirare e quando era abbastanza fortunato riusciva a catturare con lo sguardo qualche stella cadente. Tuttavia quella sera fu un’altra cosa che catturò la sua attenzione. Una Maserati nero luccicante era parcheggiata proprio fuori casa sua, dall’altra parte della strada. Quanta gente nella sua città possedeva quell’auto? Daniele era indeciso se correre di fuori per verificare chi fosse al volante o se era meglio rimanere ben chiuso in casa, soprattutto per scongiurare qualche altra figuraccia poco virile. Uscire a tarda sera con un pigiama con gli orsetti sopra, gentile regalo di Alessandro per uno dei suoi compleanni, non era una buona idea. Quando, però, vide i fari della macchina accendersi e sentì il rombo del motore dell’auto appena messa in moto, sentì un impulso irrefrenabile dentro di sé di andare a vedere chi fosse. Corse giù dalle scale precipitandosi come se ne andasse della sua stessa vita e si buttò fuori dalla porta di casa, proprio quando la macchina iniziò a muoversi fino a sparire dalla sua vista.
    “Daniele! Cosa ci fai qui fuori a quest’ora?!”
    Daniele sobbalzò dalla paura. “Scusa mamma, rientro subito.”
    Appena giunto in camera, la prima cosa che fece fu comporre nuovamente il numero del suo migliore amico che rispose dopo un bel po’ di squilli.
    “Pronto, Daniele?”
    “No, la fata Turchina!” non voleva essere così ironico, ma il pensiero che il ragazzo dei suoi sogni fosse stato tutto il tempo a fissarlo dalla macchina lo aveva mandato su di giri. Non sapeva se in senso positivo o negativo, per questo doveva parlarne assolutamente con Alessandro.
    “Ehi, calma. Che ti prende?”
    “Sì, scusa. È che penso che Marco poco fa era fuori casa mia…”
    “Che cosa?!” gli urlò l’altro dall’altro capo del telefono, sorprendendolo per tanta veemenza.
    “Sì, beh, in realtà ho visto una Maserati nera, no lui in persona… ma quanta gente gira con una macchina del genere?” chiese retoricamente mordendosi il labbro inferiore.
    “Daniele, non voglio rigirare il dito nella piaga, ma mi sembra chiaro che a Marco non interessi. Chissà di chi era quella macchina!”
    “Lo so, però…”
    “Niente ‘però’. Daniele, vai a dormire. Hai avuto una giornata pesante, lascia perdere le strane fisime mentali.”
    “Va bene. Probabilmente hai ragione tu. A domani?”
    “Certo, ci vediamo domani. ‘Notte.”
    “Buonanotte, Ale.”
    Per Daniele quella notte prendere sonno fu difficilissimo e i sogni furono popolati da splendide Maserati nere e profondi occhi verdi.
     
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    Ma che bello.....mi piace molto.... grazie mille per averlo postato, tenero cucciolo Daniele e gia' si intravede che Marco non e' cosi' altezzoso come potrebbe apparire..... Anche la figura di Alessandro, e' tutta da scoprire.....non vedo l'ora di leggere il resto....ma sbaglio o c'e'una nota fantasy anche qui...? Grazie ancora ed a presto e naturalmente sempre complimenti per la fantasia e la creativita' :rolleyes: :wub: :rolleyes:
     
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    Wow, grazie!!! Appena riavrò internet a casa (spero presto!) metterò gli altri capitoli che già sono su EFP :)
    Ah! Molto probabilmente diventerà mpreg, spero la cosa non dispiaccia :|
     
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    Su Efp!!! Lo frequento!!! Dimmi sove posso trovarlo e continuerò a leggerlo :wub: :P
     
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    Sono Yume93 :)
     
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    Capitolo 2


    Daniele si sentiva costantemente osservato e la cosa non gli piaceva per due motivi: odiava essere al centro dell’attenzione e quelle attenzioni gli causavano anche dei brividi lungo la spina dorsale. Il suo sesto senso gli diceva che qualcosa non andava. Era così preoccupato che non aveva detto nulla nemmeno ad Alessandro e aveva recitato una delle sue performance migliori, per la prima volta l’amico non si era accorto di nulla.
    Nella settimana appena trascorsa gliene erano successe di tutti i colori. Dopo la Maserati, era venuta la volta di un inquietante furgoncino bianco. Non rimaneva posteggiato a lungo e mai alla stessa ora, ma almeno una volta al giorno si trovava lì. Non aveva segni distintivi, era un furgoncino come tanti, poteva benissimo essere il nuovo veicolo di uno dei tanti abitanti di quella via, ma Daniele iniziava a pensare che il suo arrivo in contemporanea alle chiamate anonime e alla sensazione di essere controllato non fosse una coincidenza.
    Anche quel giorno stava camminando tranquillo verso l’università per le lezioni mattutine quando aveva sentito dei passi dietro di sé, ma ogni volta che si voltava trovava inesorabilmente il nulla ad attenderlo. Mentre passeggiava, evitando rigorosamente le righe tra le mattonelle, rifletteva anche sul comportamento di Marco. In quei giorni sembrava essere sempre dove si trovava lui, se lo ritrovava fuori le aule dopo le lezioni, era casualmente al bar ogni volta che ci andava senza Alessandro. All’inizio si era dato dello sciocco, Marco non aveva mai mostrato interesse nei suoi confronti. Ma allora perché adesso gli ronzava introno come le api con i fiori?
    “Ehi, bell’Addormentato?”
    Daniele si riscosse dai propri pensieri. “Ehi, ciao Ale. Da dove sbuchi fuori?”
    “In realtà è da un po’ che ti cammino dietro, ma sembravi così serio che ho preferito non disturbarti per un po’. Ancora problemi d’amore? Pensi di nuovo di aver visto una Maserati fuori casa tua?”
    “Io non ‘penso’, io so di averla vista. Ma no, non stavo pensando a quello. Dicevi che mi stavi seguendo da un po’? Da quanto di preciso?”
    “Mmm non so, tre minuti su per giù. Qualcosa non va?”
    Daniele aveva percepito quella strana presenza da molto più di tre minuti, non poteva essere stato Alessandro. Allora chi era che lo seguiva?
    “No, no. Tutto ok.” Gli rispose sfoderando uno dei suoi sorrisi migliori.
    Come se non bastasse ultimamente era diventato difficile anche gestire sua madre. Aveva fatto un’altra scenata delle sue e dopo aveva dovuto consolarla quando era scoppiata a piangere in preda al rimorso. Quella sera, quando era uscito in pigiama, se l’era cavata, ma il giorno dopo aveva per sbaglio utilizzato la tazza che usava sempre il padre per prendere il caffè. Era ancora pensieroso, con la mente rivolta alla macchina nera, e aveva afferrato la prima tazza che si era ritrovato davanti senza pensarci. La madre non aveva gradito. Lo aveva pregato gentilmente di posare la tazza, di metterla nel lavello che dopo l’avrebbe lavata e rimessa lei al suo posto, tutto questo dicendolo con un tono stranamente calmo ma fondamentalmente falso. Daniele sapeva cosa sarebbe accaduto di lì a poco. La madre si era voltata, aveva aperto un cassetto e ne aveva tirato fuori un lungo coltello affilato. Probabilmente il suo intento era stato solo quello di sgridarlo e spaventarlo, utilizzando il coltello come finta minaccia. Invece aveva maneggiato quell’arma con troppa disattenzione, avvicinandosi al figlio sempre di più che ormai, senza più via di scampo e con le spalle al muro, aveva potuto solo alzare il braccio e ripararsi con la propria carne. Adesso aveva un lungo squarcio sul palmo della mano destra. Nei primi giorni dopo l’infortunio, prendere appunti era stato un inferno, ma fortunatamente non erano stati necessari dei punti di sutura e la ferita era in via di guarigione. Come sempre, però, dopo il suo ennesimo sfogo la madre si era dimenticata tutto. Ormai era sempre la stessa routine: Daniele commetteva per sbaglio qualcosa che faceva alterare e scattare la madre, lei si arrabbiava e lo puniva per poi piangere disperata e dimenticarsi di ogni cosa.
    Quella mattina aveva ancora la fasciatura intorno alla mano, la sentiva indolenzita perché capitava che la madre gliela stringesse come punizione per qualche misfatto immaginario.
    “Allora? Ci stai?”
    “Eh? Cosa?” Daniele si era perso tutto il discorso sulla fantomatica festa che ci sarebbe stata quel fine settimana in spiaggia. Era una festa che la facoltà organizzava tutti gli anni ed era uno dei tanti motivi per cui molti ragazzi si iscrivevano lì. La politica della facoltà prevedeva studio e svago, sostenendo che la mente dei giovani non cresceva e maturava solo con le pagine dei libri, ma anche grazie al confronto con gli altri in luoghi socialmente stimolanti. Ovviamente erano feste che non raggiungevano mai l’eccesso, perciò erano sicure e divertenti al punto giusto.
    “Pronto? Ti ho chiesto se vuoi venire alla festa!”
    “Giusto… la festa.” Daniele non aveva per niente voglia di andarci, si era iscritto a quell’università perché era vicina a casa sua e perché nello stesso edificio c’era sia la facoltà di lettere che di ingegneria. Due piccioni con una fava. L’idea di immischiarsi con tutta quella gente, di bere e svagarsi non lo allettava per niente, però forse sarebbe stata una buona occasione per scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione di essere spiato.
    “Va bene, perché no.” Rispose alla fine con finta noncuranza.
    “Grande! Non voglio nemmeno chiederti cosa ti abbia convinto a dire di sì, o rischio che cambi idea e mi dai buca!”
    Daniele alzò le spalle colpevole, sapendo di non rendere la vita facile ad Alessandro. Se avesse avuto un altro amico, un amico normale, di sicuro avrebbe vissuto quegli anni all’insegna del divertimento e della spensieratezza. Raggiunsero l’università insieme, per separarsi come sempre nel cortile su cui si affacciavano tutti i portoni delle diverse facoltà.
    Quel giorno aveva le prime ore occupate dalla lezione di russo. Sfortunatamente il primo giorno aveva impiegato troppo tempo a trovare l’aula e tutti i posti vicini alle finestre erano stati occupati, perciò era stato costretto ad occupare uno di quelli in fondo al centro. La cosa non gli piaceva, se non vicino alla finestra, almeno che stesse ai primi banchi. Gli era andata male su tutta la linea. Tirò fuori dalla borsa a tracolla il quaderno pieno di caratteri in cirillico e l’astuccio sempre fornito, aveva perfino forbici e colla per ogni evenienza. Alessandro ancora lo prendeva in giro dicendogli che di solito i ragazzi smettono di avere quelle cose nell’astuccio all’elementari.
    Era intento ad osservare orgoglioso il proprio astuccio quando la sedia affianco alla sua venne scostata con poca grazia. Di solito non avrebbe mai osato alzare lo sguardo col rischio di incrociare gli occhi dell’altra persona, ma quel giorno li alzò sgranandoli subito dopo dalla sorpresa. Luca si era appena seduto al posto vicino a lui e lo stava palesemente guardando.
    “Ciao.”
    Daniele non poté fare altro che rimanere muto e inebetito. Continuava a fissarlo stralunato, chiedendosi cosa ci facesse lì. I corsi erano iniziati da un bel po’, che senso aveva iniziare una materia difficile come russo con tutto quel ritardo? Ormai aveva perso le prime lezioni fondamentali. Inoltre Luca studiava scienze storiche come Marco, il russo non era sicuramente nel suo piano di studi.
    “Ho scelto russo come esame a scelta.” Continuò l’altro quasi leggendogli nel pensiero, o forse solo per fare un po’ di conversazione visto che Daniele ancora non si era degnato di rispondere.
    “Ah.” Fu tutto quello che il castano ebbe da dire. Luca non parve prendersela a male e per il resto della lezione lo ignorò, anche se prima di voltarsi verso la lavagna sembrò gettare un’occhiata alla mano fasciata di Daniele.
    Daniele dimenticò presto la presenza di Luca, estraniandosi completamente, concentrato solo sulla lezioni sugli aggettivi. Solo quando il professore annunciò che la lezione era finita ricordò di Luca al suo fianco e si affrettò a riporre tutto nella borsa, perché forse ad attenderlo fuori dalla porta ci sarebbe stato Marco e lui avrebbe avuto l’occasione di vederlo. Non capiva quell’ossessione che aveva per quel ragazzo. Probabilmente le spalle larghe, il petto muscoloso, l’alta statura, gli occhi verdi e il sorriso perfetto da dio greco erano un grande incentivo. Beh, qualsiasi gay della facoltà conosceva Marco almeno di nome, era il sogno di ogni passivo e probabilmente anche qualche attivo sarebbe diventato versatile molto volentieri se avesse significato poter passare almeno una notte con lui. Purtroppo era anche risaputo che Marco era un donnaiolo perso. Ogni settimana lo si vedeva per i corridoi abbracciato ad una ragazza diversa. Ne cambiava tante quanto le sue camice. Daniele sapeva di non avere speranza, ma una sbirciatina ogni tanto non poteva fargli male.
    Quella volta gli andò male, Marco non era in vista, così sconsolato si diresse verso la lezione di francese. Adorava quella lingua, era musicale e dolce. Quel giorno il professore aveva deciso di dedicare la lezione all’ascolto, perciò aveva acceso il proiettore obbligando la classe al silenzio, che ubbidiente seguì il film per le successive due ore senza far volare una mosca. Alla fine della visione il professore chiese agli alunni di scrivere un riassunto o una recensione di trecento parole sulla pellicola appena vista e li congedò. Daniele era con la mente ancora alle scene preferite del film, quando il protagonista paraplegico ricomincia a ridere per la prima volta, così non calcolò bene lo spazio tra la porta, che si stava richiudendo, e lo stipite. Per evitare che questa si chiudesse del tutto mise la mano in mezzo, ma ormai la porta era talmente vicina a chiudersi che non appena inserì la mano tutto quello che riuscì a fare fu schiacciarsela proprio lungo tutto il taglio sul palmo, che per la botta riprese a sanguinare.
    Imprecando tra i denti, più per la sua sbadataggine che per il dolore, si diresse verso il bagno più vicino e dopo aver lasciato un po’ la mano sotto l’acqua fredda si chiuse dentro uno dei bagni per potersi rifasciare la mano in tutta tranquillità, senza rischiare di incuriosire qualcuno e dover rispondere a qualche domanda sgradita.
    Aveva praticamente finito di fare l’ultimo nodo quando la porta del bagnò si aprì e si richiuse con il caratteristico suono di qualcuno che chiudeva a chiave. Era seduto sopra la tavoletta abbassata del water e istintivamente portò le gambe al petto, posando la borsa tra gli stinchi e le braccia che abbracciavano le gambe.
    Qualche passo e poi due paia di gambe si fermarono al centro del bagno. Non iniziarono subito a parlare, probabilmente si stavano chinando per controllare che non ci fossero gambe in vista in nessuno dei cubicoli. Non trovandone iniziarono a parlare liberamente. Daniele stava cominciando a pentirsi di aver alzato le gambe, ora sarebbe stato testimone involontario di una conversazione che sicuramente non avrebbe dovuto ascoltare. E se fosse finito nei guai per quello? Quasi smise di respirare e chiuse gli occhi facendo finta di non esistere.
    “Che ti è saltato in mente?” disse una voce rabbiosa.
    Daniele riaprì gli occhi sorpreso. Quella voce apparteneva a Marco, l’avrebbe riconosciuta tra mille.
    “Oh, eddai. Non mi pare di aver fatto niente di male!”
    L’altro era sicuramente Luca.
    “Niente di male? Vuoi mandare tutto a rotoli?!”
    “Che esagerazione! Non mi pare di aver fatto niente di eccessivo! E poi sei tu quello che ha rischiato grosso questa settimana!” Marco gli ringhiò contro in risposta.
    “Eddai, secondo me se facciamo come dico io è meglio. Nel giro di una settimana siamo passati da giallo ad arancione. Non credi che sia ora di velocizzare le cose?”
    “No, non credo proprio! E poi c’è quel fesso…”
    “Mi spieghi perché ti sta tanto antipatico? Io non lo trovo male! Almeno noi eravamo già dell’ambiente, lui è partito da zero!”
    “Oh sì, molto bravo. Guarda, sono senza parole.” Rispose con scherno Marco, evidentemente in disaccordo.
    Daniele non aveva idea di cosa stessero parlando e a chi si stessero riferendo.
    “Va bene, lasciamo stare. Piuttosto, prepariamoci a dovere per la festa, non vorrei brutte sorprese.”
    “Faccio i salti di gioia.” Disse Marco con tutta l’ironia di cui era capace.
    Daniele adesso aveva un validissimo motivo per andare alla festa. Non se la sarebbe persa per nulla al mondo. Non aveva capito niente di quella conversazione, solo la presenza di Marco alla festa sulla spiaggia.

    Per una serata di metà ottobre le temperature erano ancora abbastanza alte. Daniele si era messo dei jeans a vita bassa un po’ strappati sulle ginocchia, una maglietta nera e legata in vita una felpa con cappuccio sempre nera. Ai piedi indossava delle comode converse rosse dalle suole piuttosto consumate. Una mano si abbatté sulla sua spalla, interrompendo la contemplazione della spiaggia che già iniziava a riempirsi. Si girò per poi ritrovarsi davanti il sorriso smagliante di Alessandro. Per l’occasione si era messo dei bermuda color cachi e una felpa verde militare. Ai piedi delle infradito gialle. A quella vista Daniele storse il naso. “Ma non hai freddo ai piedi?”
    “No. E poi venire in spiaggia con le infradito è legge. Che senso ha venire qui e poi non poter sentire la sabbia tra le dita dei piedi?”
    Il castano non era convinto, ma non fece nulla per contraddire l’amico con il quale si avviò verso il gazebo montato nel pomeriggio dagli organizzatori. Al di sotto erano stati allestiti tutti i tavoli con il buffet.
    “Cosa hai mangiato oggi a pranzo?” chiese Alessandro a bruciapelo. Daniele rispose in automatico senza pensare. “Uno yogurt.” Poi si morse la lingua. Non aveva il coraggio di girarsi a vedere la faccia dell’amico.
    “Lo sapevo! Ogni volta che non mangiamo insieme trascuri il cibo! Lo sai che devi starci attento!”
    “Lo so, lo so, scusa. È solo che ero distratto da una cosa… no, vabbè, lascia stare.”
    Alessandro lo guardò assottigliando gli occhi. Ultimamente Daniele sembrava più schivo. Aveva smesso di raccontargli le sue giornate nei minimi dettagli e questo poteva significare solo che gli stava nascondendo qualcosa. Per il momento lasciò perdere, ora la cosa più importante era farlo mangiare o gli sarebbe svenuto tra le braccia.
    Daniele si preparò un piatto appetitoso, vale a dire pizza. Una dedica in francese e un cartone di pizza e sarebbe caduto ai piedi di chiunque. Una dedica in latino e un cartone di pizza e avrebbe amato quella persona per tutta la vita.
    Occhieggiò il piatto di Alessandro, decisamente più fornito del suo, e poi rivolse di nuovo l’attenzione alla spiaggia. Si erano già formati svariati gruppetti di gente in piedi che chiacchierava spiluccando di tanto in tanto dal piatto o gente seduta sui tronchi, che fungevano da panchine, intente nelle medesime attività. Volse più volte la testa a destra e a sinistra, ma di lui nessuna traccia.
    “Chi stai cercando?”
    “Eh? Oh, nessuno in particolare.” Rispose arrossendo.
    “Sì, come no.” Lo prese in giro Alessandro facendogli capire di non essersela bevuta.
    Nonostante quella fastidiosa assenza, la serata per Daniele trascorse tranquilla e piacevole per la maggior parte del tempo. Alessandro gli presentò alcuni suoi amici di corso, anche se il castano dimenticò tutti i nomi dopo due secondi dalle presentazioni. Ogni volta che doveva stringere una mano andava talmente nel panico che il cervello gli si inceppava. Fortunatamente solo una persona chiese il perché della fasciatura sulla mano e questa accettò di buon grado una scusa inventata sul momento. Alla fine la maggior parte del lavoro l’aveva fatto Alessandro, Daniele si era limitato ad ascoltare di tanto in tanto, rimanendo però muto e un po’ in disparte.
    “Vado un attimo a prendere qualcosa da bere. Tu vuoi qualcosa?” chiese all’amico alzandosi.
    “Eh? No grazie, sono a posto così.” Alessandro non gli prestò granché attenzione, completamente immerso in una conversazione sui fluidi non newtoniani.
    Daniele si allontanò, sorridendo felice per l’amico. Era contento di vederlo infervorato e concentrato su qualcosa che non fosse lui. Ormai era diventata la sua mamma chioccia. Prese al volo una bottiglietta d’acqua naturale dal tavolo delle bevande e optò per una passeggiatina sulla spiaggia. Alessandro era in buona compagnia, mentre a lui non dispiaceva un po’ di solitudine e allontanarsi dal chiasso di tutta quella gente riunita. In fin dei conti aveva il cellulare in tasca, quindi Alessandro l’avrebbe potuto cercare lì se non fosse tornato in tempo per la fine della festa. Dopo essersi allontanato di qualche metro iniziò a sentire freddo, una brezza leggera soffiava dal mare e non era più schermata dalla calca delle persone che prima erano intorno a lui. Slegò la felpa dalla vita e la indossò. Camminava guardando il cielo e tutti quei puntini luminosi che lo adornavano, si divertiva a cercare immagini fantasiose unendo le stelle con linee immaginarie. Spesso, però, le immagini che trovava erano semplicemente le costellazioni.
    Lo raggiunse una voce alle spalle. Si voltò e vide un uomo sulla trentina venirgli incontro. Daniele iniziò subito ad agitarsi, non gli piaceva parlare con gli sconosciuti, soprattutto se doveva affrontarli da solo.
    “Scusami, mi sono perso. Sapresti dirmi la strada per tornare al centro della città?”
    A Daniele quella domanda parve abbastanza strana, ma diede la colpa alla paranoia degli ultimi giorni e si apprestò a spiegare allo sconosciuto la direzione da prendere. Stava spiegando la strada senza guardare l’uomo, intento ad indicare le varie svolte con lo sguardo rivolto alla strada davanti a loro. Le parole gli morirono in gola quando sentì un ago bucargli la pelle al lato del collo. Non fece in tempo nemmeno a chiamare aiuto che lo stantuffo venne spinto fino in fondo, iniettandogli tutto il liquido. Si voltò stralunato a guardare l’uomo. Una parte remota di sé aveva paura e sapeva di dover scappare, ma iniziava a sentirsi la mente vuota e a barcollare come se fosse ubriaco. Le palpebre gli si chiudevano da sole, ma ogni volta si sforzava di riaprirle. L’uomo rimaneva in attesa davanti a lui, controllando che in zona non ci fosse nessun testimone. Ebbe sfortuna. Daniele vide un’ombra gettarsi sopra l’uomo, non riusciva più a distinguere bene le figure perché aveva la vista offuscata, ma sentiva qualcuno ringhiare ‘bastardo’ a ripetizione. Non sapeva perché ma la cosa gli sembrava quasi buffa. Ora però aveva solo tanta voglia di dormire, la sabbia gli sembrava così confortevole. Si sentì cadere all’indietro, ma venne prontamente afferrato dalle braccia forti del suo salvatore che per evitargli una brutta caduta era stato costretto a lasciar andare l’assalitore. “Maledizione!” lo sentì imprecare tra i denti mentre scivolava sempre di più verso l’incoscienza. “Ehi, mi ricevi? È fuggito ad est. Bianco, sulla trentina, moro, occhi scuri, abiti civili: una tuta marrone. Sì lo so, sono dei fottuti abiti scuri, come quelli che sta indossando questo deficiente. Sono riuscito a trovarlo solo grazie alle scarpe rosse! Datti una mossa e avverti l’altro cretino! No, no sta bene, l’ha solo sedato. Sì, aspetto qui.”
    Poi Daniele perse i contatti col mondo.
    Quando rinvenne si ritrovò sdraiato sulla sabbia con la testa poggiata sulle gambe di Alessandro. Sbatté un paio di volte le palpebre per allontanare la foschia dal cervello e si mise a sedere con cautela.
    “Ben svegliata principessa! Mi hai fatto prendere un colpo! Vorrei sgridarti come meriti, ma ti risparmio solo perché mi sembri talmente confuso che la mia ramanzina non sortirebbe comunque nessun effetto.”
    “Alessandro.” Disse Daniele guardandosi intorno. “Cos’è successo?”
    “Beh, mi avevi detto che saresti andato a prendere da bere, poi quando non ti ho visto tornare ho iniziato a preoccuparmi, così sono venuto a cercarti e sono riuscito a prenderti al volo proprio mentre stavi svenendo.”
    “Svenendo? No, io… la siringa…e poi quel ragazzo… oddio, e l’uomo!” stava iniziando a ricordare.
    “Daniele, calmati! Quale siringa? E quale uomo? Credo che tu ti sia semplicemente sognato tutto. Infatti mentre eri privo di sensi ti sei agitato un sacco. Probabilmente hai avuto uno dei tuoi soliti cali di pressione e sei svenuto. Fortuna che sono arrivato in tempo!”
    “Che? No! Avevo mangiato… non può essere!” protestò.
    “Dai, andiamo a casa che è meglio. Ci facciamo una doccia per toglierci tutta questa sabbia di dosso e poi dritti sotto le coperte.”
    Daniele annuì poco convinto, ma alla fine si mise in piedi e lo seguì, anche se inizialmente un po’ mal fermo sulle gambe. Continuava a gettarsi occhiate alle spalle in cerca dell’uomo e del ragazzo. Era sicuro di non esserseli sognati. Alessandro camminava davanti a lui fischiettando, cosa che trovò alquanto strana. Daniele tremò. Doveva iniziare a dubitare perfino del suo migliore amico? Cosa stava succedendo?
    Nonostante le insistenze di Alessandro per andare a dormire da lui, Daniele si rifece accompagnare a casa ed entrò badando bene a non svegliare la madre; era una delle poche notti in cui non aveva il turno al pub. Inchiavò dando tre mandate e salì in camera. La prima cosa che fece fu estrarre da sotto al letto una piccola scatola chiusa da un lucchetto. Recuperò la chiave e ne liberò il contenuto che portò in bagno insieme al pigiama. Si chiuse delicatamente dentro e si sedette sul water, rigirandosi tra le mani la siringa e il piccolo contenitore per le urine. Alla fine decise che avrebbe effettuato un test ematico. L’indomani avrebbe controllato nei laboratori della facoltà di biologia la fiala di sangue che stava per prelevarsi e in caso non fosse stato sufficiente avrebbe poi controllato anche le urine, considerando che la permanenza di sostanze sedative sarebbe stata comunque di circa sette-dieci giorni. Optò lo stesso per il sangue perché una piccola provetta di sangue avrebbe dato meno nell’occhio e sarebbe stata molto più immediata da analizzare, anche se non potendola analizzare subito avrebbe comportato il rischio di fare un buco nell’acqua, visto che le sostanze nel sangue sarebbero rimaste per ore invece che giorni. Si legò il laccio emostatico intorno al braccio sinistro, aprì e chiuse un paio di volte il pugno per far ben evidenziare la vena. Una sottile striscia blu apparve in pochi istanti, considerando il candore della pelle di Daniele e il suo scarsissimo grasso corporeo. Inserì l’ago deciso e prelevò il sangue necessario. Tamponò un po’ il liquido rosso fuoriuscito dal foro, mise i vestiti insabbiati nella cesta dei panni sporchi e si infilò sotto l’acqua della doccia per lavare via i residui di quella serata.
    La mattina dopo aveva lezione sul tardi, ma dovette stare attento a non incrociare Alessandro per i corridoi perché i laboratori di ingegneria erano vicini a quelli di biologia che servivano a lui. Ne cercò uno semivuoto, sempre aperto per dare la possibilità agli studenti di esercitarsi al di fuori delle lezioni. Scelse la postazione in fondo e tirò fuori la fialetta di sangue da una piccola borsa frigorifera. L’aveva conservata durante la notte nel mini frigorifero che aveva in camera, impostandolo a una temperatura tra i 20° e i 24° in modo che il sangue intero potesse conservarsi per almeno 24h. Rifletté sul fatto che avrebbe dovuto risparmiare dei soldi per comprarsi l’occorrente per svolgere quelle pratiche a casa. Era munito di vari oggetti per svolgere di tanto in tanto degli esperimenti come hobby, ma un microscopio professionale avrebbe proprio fatto al caso suo.
    Prelevò con una pipetta qualche millilitro di sangue e lo depositò sul vetrino destinato al microscopio. Ci mise un po’ a riconoscere quello che stava cercando, ma alla fine la molecola C16H13ClN2O risaltò chiara ai suoi occhi: aveva del Diazepam nell’organismo. Vale a dire, era stato drogato con del Valium. Non aveva sognato tutto, aveva seriamente rischiato di essere rapito e non sapeva il perché. Era capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato o puntavano proprio a lui? E perché il ragazzo che lo aveva salvato non si era fermato con lui? Magari il ragazzo venuto in suo soccorso e Alessandro erano la stessa persona e l’amico non aveva detto niente per non farlo spaventare.
    Con un vorticare di domande nella testa rimise tutto al proprio posto, controllando bene di non aver lasciato tracce del proprio operato. Uscito dal laboratorio, si diresse verso le aule della facoltà di ingegneria per andare incontro ad Alessandro e proporgli di andare insieme a studiare in biblioteca. Voleva un luogo dove riflettere, dove vigeva l’obbligo del silenzio. Si stava destreggiando per i corridoi a lui poco noti quando intravide la chioma corvina di Marco. Quella mattina lo aveva incrociato in cortile, sorridendo a trentadue denti per la fortuna che aveva avuto; in cambio l’altro ragazzo gli aveva lanciato un’occhiata omicida, come se gli avesse fatto un torto imperdonabile. Proprio non capiva cosa gli avesse fatto di male per meritare tanto disprezzo. Lo odiava dal primo giorno di università, prima ancora di avere la possibilità di conoscersi o prima ancora di avergli gettato il succo addosso.
    Per evitare una seconda occhiataccia nera, si nascose dietro una colonna, diventando per l’ennesima volta testimone di una conversazione che non avrebbe dovuto udire.
    Erano appena finite le prime due ore di lezioni ed Alessandro stava uscendo da una delle tante aule che davano sul corridoio. Daniele vide Marco dirigersi a passo spedito verso l’amico, prenderlo per una manica e trascinarlo verso un angolo più appartato, vicino alla colonna dietro la quale il castano era nascosto. Gli studenti sfrecciavano affianco a loro senza degnarli di uno sguardo, preoccupati piuttosto a raggiungere l’aula della prossima lezione.
    Daniele sentì la voce spazientita dell’amico. “Ehi, si può sapere che ti prende? Stiamo dando un tantino nell’occhio.”
    “Stiamo dando nell’occhio?! Sei tu che ieri dovevi tenere gli occhi aperti e invece ti sei dato alla pazza gioia insieme ai tuoi amichetti sfigati!” sibilò tra i denti Marco.
    “Ancora con questa storia? C’erano delle aree di copertura stabilite, sai benissimo che non mi sarei potuto muovere neanche volendo!” quasi sbraitò di rimando Alessandro.
    “Sai benissimo che a volte i piani vanno modificati in base alle esigenze! Ah, scusa, forse non lo sapevi così bene visto che sei un novellino!”
    “Falla finita. Sono passati tre anni dal mio primo giorno, non sono più un novellino. Poco importa se per te e Luca ne sono passati cinque.”
    “Sì, ufficialmente sono cinque, ma io e lui viviamo in quel mondo da tutta la vita, c’è una bella differenza, ricordatelo sempre.”
    “Sì, come vuoi tu. Anzi, sai che ti dico? La prossima volta gli suggerirò di vestirsi giallo canarino così sarai più contento!”
    “C’è poco da fare gli spiritosi, abbiamo rischiato grosso e siamo passati da un codice arancio a rosso in una sola notte! Infatti, in realtà, sono venuto fin qui solo per dirti che tra due giorni ci sarà un nuovo meeting per discutere della situazione.”
    “Stesso posto, stessa ora?”
    “Stesso posto, stessa ora.” Così dicendo, Marco se ne andò.
    Daniele non riusciva a credere alle proprie orecchie. Fece dietro front e si allontanò di gran carriera meditando su tutte quelle conversazioni che gli era capitato di ascoltare. Sembravano tutte collegate tra loro, ma non riusciva a coglierne il filo conduttore. Ma soprattutto, perché Alessandro e Marco sembravano così in confidenza?
    Si sentiva tagliato fuori, tradito. Alessandro, Marco e Luca erano un trio, mentre lui era solo dall’altra parte. Seguì il resto delle lezioni con la testa un po’ tra le nuvole, fortunatamente il professore si perdeva spesso in digressioni inutili sulla sua vita coniugale che stava colando a picco, perciò Daniele non si perse poi molte cose. Quando vide Alessandro venirgli incontro per tornare a casa insieme, inventò una scusa per tornare a casa da solo a piedi.
    Rientrò a casa prima del solito, aveva quasi corso per arrivare in camera sua il prima possibile. Aveva il fiatone, ma finalmente poteva iniziare a cercare di districare quella matassa ingrovigliata di eventi e conversazioni. Tuttavia non ebbe tempo nemmeno di togliersi la giacca che la madre fece il suo ingresso nella camera apostrofandolo malamente. Era un figlio degenere, il cui scopo era solo quello di rovinarle la vita. Lo sgridò per i vestiti pieni di sabbia che aveva lasciato sopra gli altri abiti da lavare, costringendola a pulire anche quelli dai granelli. Lo disse come se avesse dovuto togliere a mano ogni singolo granello. Se ne andò per recarsi a lavoro, comunicandogli che aveva già preparato la punizione per lui.
     
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    Oh oh...povero Daniele...cosa lo aspettera'....? Grazie del secondo capitolo del tuo racconto Giulia che si fa sempre piu' intrigante, complimenti come sempre.....Sono sempre piu' curiosa di scoprire di che Organizzazione si tratti e cosa lega Alessandro a Luca e Marco....E' scritto molto linearmente ed e' molto appassionante....bravissima e buona ispirazione :rolleyes: :wub: :rolleyes:
     
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  9. kikkaza
     
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    Veramente Brava i primi 2 capitoli mi sono piaciuti molto , ora però sono troppo curiosa......
     
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    Grazie a entrambe!! Metterò uno o due capitoli verso il 14 ;)
     
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    Capitolo 3

    La testa del professore di letteratura russa sembrava una grandissima melanzana allungata. Daniele avrebbe riso, se non fosse stato per il mal di testa che sembrava volergli aprire il cranio in due. Ogni lettera degli appunti che stava prendendo era una conquista. Sbatté rapidamente le palpebre in successione per schiarire la vista appannata e si accorse che nei suoi appunti Dostoevskij era diventato Dostoyeski. Era in piedi da sole due ore e già aveva voglia di tornare a letto, sotto uno strato infinito di coperte. Gli occhi gli prudevano e doveva strizzarli più volte per riuscire a mettere a fuoco. Era sicuramente uno spettacolo pietoso da vedere. Un ragazzo di diciannove anni che se ne andava in giro con gli occhi lucidi e scosso dai brividi nonostante la pesante felpa che aveva indosso. Allo scoccare del termine della lezione, si issò a fatica la tracolla sulla spalla e barcollante guadagnò la porta, non badando ai vari spintoni che riceveva dagli studenti che lo superavano sbuffando per la sua lentezza. Camminava rasente al muro, anche se più che altro sembrava lo stesse pulendo con la manica per quanto gli stava vicino. Daniele sapeva di non poter rischiare di camminare in mezzo al corridoio, nel caso di un capo giro improvviso avrebbe necessitato un sostegno nelle immediate vicinanze. Al momento il suo obiettivo era il bagno. Verso gli ultimi minuti della lezione lo stomaco aveva iniziato a protestare, rifiutandosi di digerire la misera fetta di pane tostato che Daniele aveva digerito per colazione.
    Ancora qualche metro e avrebbe raggiunto la sua salvezza. Aprì la porta del bagno non facendo caso se vi fosse qualcuno ai lavandini e si fiondò nel cubicolo in fondo, iniziando a rigettare anche l’anima. Lo stomaco si stringeva in dolorosi spasmi, costringendolo a vomitare pane e bile che lungo il passaggio gli bruciavano la gola. Si ripulì con un pezzo di carta e tirò lo sciacquone. Fortunatamente, uscendo dal cubicolo, notò che era solo nel bagno, o forse chi era dentro prima di lui era fuggito al suono di lui che rimetteva.
    Si guardò allo specchio e quasi balzò indietro spaventato dalla sua stessa figura. Aveva i capelli scompigliati, le guance e gli occhi arrossati per la febbre e le labbra viola. Si chinò verso il rubinetto per sciacquarsi la bocca, almeno avrebbe mandato via il saporaccio che sentiva sulla lingua. Sentì qualcuno entrare, ma non si girò, facendo finta che stesse semplicemente bevendo. Quando si rimise in posizione verticale, la testa iniziò a girargli vorticosamente e dovette arreggersi con le mani al lavandino davanti a lui per non cadere a terra. Si sentiva le gambe molli e aveva paura che presto avrebbero ceduto, smettendo di sorreggerlo.
    Gli era bastata una sola notte per ammalarsi e si odiava per questo. Nessun ragazzo sano al mondo avrebbe preso la febbre per un po’ di freddo. Ma effettivamente lui non era un ragazzo sano, lui era un ragazzo patetico e deboluccio.
    Sospirò rassegnato girandosi verso la porta, ma si bloccò notando che la persona entrata poco prima era rimasta tutto il tempo ferma a fissarlo. Se possibile le guance gli divennero ancora più rosse, aggiungendo alla febbre l’imbarazzo. Marco lo stava scrutando con i suoi pozzi verdi.
    “C-ciao.” Balbettò facendo la figura dell’idiota. Marco alzò un sopracciglio e si fece da parte per lasciarlo passare. Daniele uscì in corridoio, sentendosi al sicuro ora che non era più sotto lo sguardo del ragazzo che gli piaceva.
    Fece qualche passo incerto verso le macchinette. L’idea di mangiare qualcosa lo nauseava, ma doveva almeno ingerire un po’ di zuccheri per evitare di stramazzare al suolo e fare una solita figura delle sue. Rimase fermo davanti alle macchinette per cinque minuti buoni, lasciando passare avanti almeno una decina di persone. Respirava prendendo dei respiri profondi perché guardare tutto quel cibo gli faceva venire voglia di vomitare. In realtà il suo scopo era comprare un succo, ma tutte quelle merendine distraevano la sua mente confusa. Andò quasi nel panico quando iniziò a vedere dei puntini neri davanti agli occhi, ma fortunatamente qualcuno venne in suo soccorso prendendolo per le spalle. Si rilassò istintivamente tra quelle braccia forti, appoggiandosi al petto ampio del ragazzo. Sollevò gli occhi azzurri e acquosi per incontrare nuovamente i due pozzi verdi che lo fissavano con rimprovero. Daniele voleva sotterrarsi da qualche parte e uscire fuori solo dopo aver atteso qualche decennio. Purtroppo la stanchezza non gli permetteva di compiere nemmeno il minimo gesto, cosicché rimase in balìa di Marco che lo trascinò all’interno della Maserati nera parcheggiata in strada. "Non azzardarti a vomitarmi dentro la macchina, ci siamo capiti?"
    Daniele annuì annichilito, non ci stava capendo più niente. Un attimo prima era davanti alle macchinette, quello dopo si trovava comodamente seduto sui sedili di pelle profumata della macchina di Marco. Quanto avrebbe voluto salire su quella macchina in una situazione più normale. Con il cervello al meno del 50% delle sue capacità, poteva apprezzare solo limitatamente i riflessi viola che si creavano sulla chioma corvina grazie ai raggi di sole che filtravano dal parabrezza. Poteva classificare solo come rosso il colore delle labbra perfette che gli avevano parlato. In altre occasioni avrebbe utilizzato epiteti migliori, come vermiglio o meglio ancora rubino. Per non parlare degli smeraldi lucenti che aveva al posto degli occhi.
    Daniele si mise una mano davanti alla bocca per evitare che quei pensieri si concretizzassero in parole. In quel momento non si fidava affatto del proprio filtro cervello-bocca. Marco interpretò quel gesto come un nuovo attacco di nausea, così mise in moto e sfrecciò via dal luogo dove aveva parcheggiato. Daniele prese a sbattere gli occhi ancora più che in classe per poter ammirare il profilo perfetto della mandibola del guidatore, ma stava cominciando veramente a sentirsi di nuovo male, perciò distolse l'attenzione dalle fattezze dell'altro per concentrarsi sulla respirazione. Purtroppo i suoi sforzi non stavano dando risultati, percepiva la realtà attorno a sé sempre più sfocata, come se gli sfuggisse dalle dita.
    "Devo vomitare." Disse con voce strozzata.
    Marco inchiodò imprecando, accostò, scese e fece il giro della macchina per aiutare quella persona che stava diventando la sua nemesi. La situazione era peggiore di quanto si aspettasse perché nonostante l'aiuto Daniele cadde in ginocchio, vomitando altra bile rimanendo a bocconi. Quando ebbe finito era praticamente incosciente, così Marco mise un braccio sotto l'incavo delle ginocchia, uno dietro la schiena, proprio sotto le scapole, e lo tirò su in braccio per poi riporlo sul sedile. Il castano si perse tutto il resto del tragitto per le vie della città fino alla periferia. Non si accorse di quando l'auto svoltò per imbucare una stradina semi nascosta dagli arbusti che dopo qualche chilometro si allargava in un ampio viale alberato. Non vide nemmeno l'immensa villa davanti alla quale si fermò la Maserati.
    Daniele si svegliò spaesato in un letto che non era il suo. Si alzò a sedere di scatto, ma il gesto gli provocò una fitta a tutto il periostio del cranio. Il mal di testa non se n'era andato nemmeno dormendo. La domanda era: per quanto aveva dormito?
    Proprio mentre si stava ponendo quella domanda, la porta si aprì senza che qualcuno avesse prima bussato. Marco fece la sua apparizione e portava un vassoio in mano. Daniele non aveva parole, non sapeva assolutamente cosa dire. Anche nella confusione dovuta alla febbre capì che quella doveva essere la casa del ragazzo.
    “Ti sei svegliato. Ti ho portato un antiemetico, così almeno eviti di imbrattarmi la camera.” Disse sbrigativo il moro poggiando il vassoio con i medicinali sul comodino, affianco al letto matrimoniale.
    Daniele spalancò gli occhi sorpreso.
    “Che c’è? Pensavi fossi un completo ignorante?” lo canzonò l’altro.
    “No, è che non tutti sanno che un antinausea si chiama antiemetico, tutto qui.” Cercò di spiegargli Daniele per non dargli l’impressione di averlo davvero insultato dandogli dell’ignorante. Ottenne l’esatto contrario.
    “E quindi, sei sorpreso che non ho usato un termine della comune plebaglia, mentre tu sei il genio indiscusso al di sopra di tutti…”
    Lo aveva completamente equivocato. Lui non pensava di essere migliore degli altri, solo… diverso. Come poteva farglielo capire se a quanto pareva non appena dava fiato alla bocca l’altro trovava nuovi spunti per attaccarlo? L’istinto e la sua indole gli dicevano di stare in silenzio. Più economicità linguistica di così si moriva. E tuttavia non poteva. Non poteva creare ambiguità tra lui e Marco, non con Marco.
    “N-no, non volevo dire questo! Ero solo sorpreso che qualcuno parlasse come me… è stato bello…” come se non fossi solo nel mio mondo. Daniele ricadde sui cuscini stanco morto. Anche quel minimo di conversazione l’aveva sfiancato.
    Marco storse il naso. Aveva capito, ma non gli piaceva comunque quel moccioso che a detta sua non aveva nemmeno una qualità. Era solo uno smidollato con gli anticorpi pari a zero.
    “Che diavolo ci trova Alessandro in te proprio non lo capisco…” borbottò a mezza voce.
    “Eh?” Daniele non era riuscito a captare nemmeno una parola. Si sentiva il cervello circondato dall’ovatta.
    “Niente. Però toglimi una curiosità, poi ti lascio riposare.”
    Daniele annuì con gli occhi già chiusi. Avrebbe tanto voluto prendere l’antiemetico solo per il fatto che gliel’aveva portato lui, ma non riusciva a tenere le palpebre su.
    “Mi spieghi come fai ad avere 39° di febbre se ieri eri sano come un pesce?”
    “Mh?” biascicò Daniele. “Sì, ieri… ho fatto la doccia…” Marco inarcò un sopracciglio, non gli sembrava una risposta molto logica. La febbre doveva avergli definitivamente fritto il cervello. “Che c’entra la doccia?” insistette, neanche lui sapeva perché. Si disse che era solo semplice curiosità per ingannare il tempo.
    “La sabbia ha sporcato i vestiti, non sono stato attento. La mamma si è arrabbiata e mi ha tolto l’acqua calda per fare la doccia, ha nascosto il phon e mi ha bloccato la finestra aperta per tutta la notte…” il sonno gli stava rendendo la voce impastata. Non avrebbe resistito a lungo. Infatti si perse l’imprecazione che accompagnò la chiusura della porta, mentre Marco usciva dalla stanza.
    Un paio d’ore dopo, Daniele si svegliò una seconda volta, tutto sudato. Si sentì immediatamente a disagio perché probabilmente aveva impregnato tutte le coperte. Se avesse saputo che quello era il letto di Marco, si sarebbe immediatamente suicidato, ma non si considerava degno nemmeno del seppuku. Scostò le coperte e si mise a sedere portando le gambe a terra. Aspettò qualche minuto per abituarsi alla nuova posizione e poi si alzò definitivamente in piedi. Il cervello ancora gli martellava in testa, ma almeno adesso non sentiva più il bisogno impellente di svuotare lo stomaco ogni tre secondi. Anzi, gli era venuta fame, ma prima doveva assolutamente darsi una ripulita. Barcollò fino a una porta, non quella da cui era entrato ed uscito Marco. Aprendola scoprì che era un bagno privato e con un po’ di timore vi entrò dentro richiudendo la porta alle sue spalle. Si guardò un po’ intorno. Il bianco regnava sovrano, spezzato solo dagli asciugamani verdi. In tutta sincerità gli metteva una certa ansia. Quei colori gli ricordavano quelli degli ospedali e lui odiava gli ospedali. Alquanto paradossale visto che se non lingue, avrebbe preso medicina. Probabilmente sarebbe finito a fare il medico di pronto soccorso, sarebbe stato così impegnato che non avrebbe fatto nemmeno caso ai colori che lo circondavano.
    Sospirò. La sua intenzione era di prendere uno degli asciugamani, inumidirlo e passarselo sul corpo, ma proprio non riusciva a decidersi a farlo. Non aveva chiesto il permesso di poterlo usare. In questo momento la voce della madre gli risuonava nelle orecchie. Non fare questo, non fare quello, disgraziato, sei tutto tuo padre. Suo padre. Era da tanto che non ci pensava. Se solo non ci fosse stato quell’incidente le cose sarebbero andate molto diversamente. Ma avrebbe comunque incontrato Alessandro? E Marco? Ma poi perché gli interessava così tanto? Forse perché Daniele era convinto che sotto quello sguardo duro c’era anche altro. Soprattutto perché gli avvenimenti degli ultimi giorni glielo avevano confermato. Anzi, l’indomani sarebbe dovuto esserci l’incontro segreto, ma dove?
    Daniele poggiò la schiena alle piastrelle del bagno e si lasciò scivolare seduto a terra, raggruppò le ginocchia, le abbracciò e vi poggiò sopra la testa. Aveva iniziato di nuovo a fargli male e dopo essere stato per tutto quel tempo fuori dalle coperte aveva iniziato a sentire freddo. Non si era accorto di tremare fino a quando cercando la fonte del rumore costante che sentiva capì che erano i suoi denti che battevano.
    La porta si spalancò all’improvviso e alzò di riflesso la testa. “Che diavolo ci fai qui? Se muori mi metti nei casini!” Daniele non poteva capire il reale significato di quella frase, ma poteva capire che il problema non era strettamente la sua morte, ma i problemi che gli avrebbe causato. Quali problemi?
    Si lasciò alzare e riportare a letto. “Si può sapere perché ti sei alzato?” lo sgridò Marco.
    “Ero sudato…”
    “E non potevi tornare a letto dopo esserti pulito?”
    “Non sapevo se potevo usare gli asciugamani…”
    “E quindi sei rimasto lì? Ma sei scemo?!”
    Daniele chinò il capo abbattuto. Non lo avrebbe mai conquistato continuando di quel passo.

    Era stato male quasi tutta la settimana, impallidiva al pensiero di quanti appunti avrebbe dovuto recuperare. Aveva il fine settimana assicurato alla scrivania. Non era nemmeno riuscito a contattare Alessandro, era stato stranamente schivo e la maggior parte delle volte non rispondeva alle sue telefonate. Per di più, aveva perso la possibilità di scoprire di cosa si trattasse quel misterioso incontro tra Marco e Alessandro.
    In quei giorni la madre era stata relativamente tranquilla, ma era solo la calma prima della tempesta. Tra poco sarebbe stato l’anniversario dalla morte del padre. In quel giorno era sempre imprevedibile, era successo solo una volta che si ricordasse che il marito era davvero morto. Era accaduto il secondo anniversario dalla morte e aveva quasi tentato il suicidio.
    Daniele si portò stancamente il pollice e l’indice ai lati del naso per premere agli angolo degli occhi. Forse era stanco di ripetersi che tutto andava bene.
    Improvvisamente squillò il telefono e si affrettò a scendere le scale per andare a rispondere. “Pronto?”
    “Buongiorno. Mi chiamo Monica, la contatto per informarla che è stato selezionato per una meravigliosa offerta-”
    “Scusi se la interrompo, ma non sono interessato.” Tentò di essere il più sbrigativo possibile.
    “Ma non le ho ancora spiegato in cosa consiste, se solo mi lasciasse finire-”
    “No, grazie.”
    “Neanche se si tratta di tua madre?”
    “M-mia madre? Cosa c’entra mia madre?” non gli piaceva per niente la direzione che stava prendendo quella conversazione e nemmeno il tono di voce che aveva iniziato ad usare Monica. Si era abbassato, era diventato minaccioso ed era passata al tu.
    “Beh, i pub possono essere dei luoghi molto pericolosi, è una fortuna che oggi le sia capitato il turno di giorno. Vediamo se hai fatto i compiti a casa: cosa accadrebbe se chiedessi al mio amico che la sta tenendo d’occhio di infilarle il suo adorato quadrello tra la quarta e la quinta costa sternale del lato sinistro?”
    Daniele ingoiò il groppo che gli si era formato in gola. “Centrerebbe in pieno il mediastino anteriore…” rispose con un sussurro.
    “Esatto! Sei intelligente come tuo padre. È stata una tale delusione scoprire che avevi preso lingue e non medicina! Ma vedo che ti stai tenendo al passo. E quindi che succede se il quadrello del mio amico raggiunge il mediastino? Che poi, perché un quadrello? Un normale stiletto non gli andava bene? È così fissato col medioevo!” e rise, come se la loro conversazione fosse una semplice conversazione tra amici. Daniele ignorò l’ultima parte sullo stiletto, non aveva idea di quale fosse la differenza, ma aveva inteso dove stava andando a parare la donna.
    “Andrebbe a forare il pericardio… e…” la voce gli si spezzò in gola.
    “E addio! Un bel buco nel cuore, eh? Bello vero? Ma noi non vogliamo questo, no. Quindi che ne dici se ora mi stai a sentire?” Daniele annuì e anche se la donna dall’altro capo del telefono non poteva aver visto quel cenno interpretò il suo silenzio come un assenso.
    “Dicevamo? Ah sì. Il mio capo vorrebbe fare davvero due chiacchiere con te faccia a faccia, ma siccome è una persona generosa ha deciso di darti qualche giorno di tempo per pensarci su. Devi farti trovare tra quattro giorni al binario 18 della stazione alle 21 in punto, altrimenti tua madre muore.”

    Il fine settimana era stato un incubo. Non aveva quasi chiuso occhio per tutte le 48h e ora sembrava più la versione zombie di se stesso. Lo stomaco gli brontolava, era uscito senza fare colazione, ma nello stato catatonico in cui si trovava era il minore dei suoi problemi. A sottolineare quanto era sconvolto fu la sua decisione di prendere l’autobus. Nemmeno saltare le righe tra le mattonelle avrebbe giovato alla sua mente in sovraccarico. La donna, Monica, non aveva accennato a non coinvolgere la polizia o terzi, ma Daniele riteneva sottinteso che non avrebbe dovuto farlo e certamente non avrebbe rischiato sulla pelle di sua madre.
    Muovendosi come un automa attraversò il cortile dell’università, ignorando completamente la presenza di Marco e Luca a soli pochi passi da lui. Solo quando Alessandro gli planò addosso con la grazia di un elefante si riscosse tornando nel mondo dei vivi.
    “Ehi, amico! Come va?”
    Come va. Nessun ‘Ehi, scusa se non mi sono fatto sentire per una settimana’ oppure ‘Scusa, mi incontro segretamente con la tua cotta non poi così tanto segreta…’. Solo ‘Come va’. Una merda. Ma Daniele non era una persona volgare, non perdeva mai la calma, lui era razionale. Non avrebbe detto niente a nessuno e sarebbe andato a quell’appuntamento sperando, forse neanche troppo, che avrebbero mantenuto la parola. Non voleva farsi illusioni, ma non aveva alternativa. Aveva perfino simulato lo scenario peggiore, quello in cui sarebbe dovuto ricorrere alla forza fisica. Quello avrebbe certamente segnato la sua fine. Il suo destino sarebbe stato soccombere.
    “Ale. Tutto ok. In questi giorni mia madre sembra quasi… felice.” E così sarebbe rimasta, pensò tra sé.
    “Grande! Allora non ci sono problemi se le chiedi se mercoledì sera puoi venire a dormire da me! Dai, prendiamo un film come al solito e ti prometto che da bravi bambini per le dieci siamo già sotto le coperte!”
    Di tutti i giorni possibili, l’amico aveva scelto proprio mercoledì. “Mi dispiace, non posso.” Diretto e pochi dettagli.
    “Come no!? Eddai!! Ti prego!” Alessandro aveva giunto le mani in segno di preghiera. Aveva anche sporto in avanti il labbro inferiore per impietosirlo.
    “Ale, sul serio, non posso. Ho un altro impegno.” Tagliò corto.
    “Un impegno? Allora ti accompagno e poi andiamo da me.”
    “Ti ho detto che se non posso non posso, tu che dici!” sbottò alla fine. Non gli piaceva nemmeno mentire, specialmente se il destinatario della menzogna era il suo migliore amico, ma era stufo. Stufo di dipendere da lui, stufo di sentirsi inadeguato in mezzo alle persone, stufo di essere incompreso da Marco e sopra ogni cosa era stufo di essere all’oscuro di qualsiasi cosa stesse succedendo.
    Fuggì via sotto gli occhi sbalorditi di Marco, Luca e dell’amico. Anche se forse, non erano poi tanto sorpresi da quella reazione.
    Fece finta di dirigersi verso le aule di lingue, ma poi cambiò repentinamente il proprio percorso e si rifugiò nel laboratorio di chimica e biologia. Aveva passato un fine settimana di inferno, ma era riuscito a completare tutte le proprie ricerche dimenticando gli appunti in un angolo. Ora aveva altri due giorni per risposarsi, concentrarsi e ripassare a mente i vari scenari possibili a cui era giunto.
    Innanzitutto indossò il camice, dei guanti spessi, gli occhiali e maschera protettivi, poi si voltò verso l’armadio con tutti i materiali per prendere ciò che gli serviva: un estintore a CO2, del nastro adesivo resistente, una federa e infine tirò fuori dallo zaino un piccolo frigorifero portatile. Per prima cosa gli serviva del ghiaccio secco.
    Inserì il beccuccio nero dell’estintore dentro il buco della federa e sigillò il tutto con abbondante nastro adesivo. Quando si fu assicurato che era tutto sistemato a dovere aprì la finestra vicino a lui per una maggior sicurezza, non si poteva mai sapere se i sistemi d’areazione funzionassero davvero bene, e rilasciò l’anidride carbonica per un paio di secondi circa tre volte. Finita questa parte, srotolò il nastro adesivo e rimosse la federa, badando bene a ripulire il beccuccio da tutto il ghiaccio secco residuo. Per sicurezza lo fece con i bordi della federa. Nonostante indossasse i guanti appositi era meglio non rischiare: il ghiaccio secco aveva una temperatura di circa -79°. Riversò tutto il contenuto della federa dentro il piccolo frigorifero a cui aveva modificato il bordo per renderlo più spesso in modo tale che il coperchio non si chiudesse. Il ghiaccio secco non doveva essere chiuso ermeticamente o la pressione esercitata dall’anidride carbonica avrebbe fatto esplodere il contenitore.
    Era rimasto totalmente concentrato nel suo operato che non si era reso conto che alcuno studenti erano entrati nel laboratorio per esercitarsi, ma fortunatamente nessuno gli aveva prestato troppa attenzione. Proprio come stavano facendo loro, non era insolito utilizzare i laboratori universitari a proprio piacimento.
    Il secondo passo sarebbe stato creare la nebbia. Ma ancora aveva dei dubbi su come conservarla. Crearla sul momento sarebbe stato poco pratico. Era tentato di chiedere aiuto a quegli studenti, infondo la chimica non era propriamente il suo campo, aveva giusto un livello amatoriale.
    “Scusate ragazzi, potrei chiedervi un parere?” Non era mai stato il primo a intavolare una conversazione, lo faceva sempre Alessandro per lui. Non si sentiva affatto a suo agio.
    “Uh, certo. Spara pure.” Beh, almeno erano dei tipi socievoli.
    “Ecco, io vorrei creare della nebbia artificiale… mi chiedevo se c’è un modo per conservarla. Diciamo… per un paio di giorni…?”
    I ragazzi si guardarono vicendevolmente sorpresi da una domanda del genere. Tutti sanno che gli elementi allo stato gassoso si liberano nell’aria e si disperdono subito.
    “Mmm, mi dispiace, ma non credo ci sia un modo. Devi unire il ghiaccio secco e l’acqua calda sul momento…”
    “Ok, grazie mille lo stesso.”
    Questa non ci voleva. Non era abituato ad azioni repentine da film d’azione. Portarsi appresso una bottiglietta riempita a metà con acqua calda non sarebbe stato un problema, ma il ghiaccio secco sì. Come avrebbe inserito i frammenti di ghiaccio nella bottiglia? Purtroppo avrebbe potuto scoprirlo solo sul momento. Probabilmente avrebbe contato sull’effetto sorpresa.
    Terzo passo: uno spray al peperoncino. Avrebbe potuto benissimo farlo a casa, ma sua madre sarebbe potuta rientrare in qualsiasi momento e a quel puto che scusa avrebbe potuto rifilarle?
    Ancora una volta estrasse dallo zaino tutto l’occorrente: pepe di cayenna in polvere, pepe nero in polvere, peperoncino in polvere, succo di limone, sale, una piccola bottiglia spray e del succo di peperoncino, avrebbe deciso sul momento se aggiungere sapone o candeggina.
    Già immaginava come la C18H27NO3, la Capsaicina, avrebbe irritato le loro mucose. Represse un brivido al pensiero. Sarebbe stato doloroso, ma meglio loro che lui.
    Prese una egual dose di ogni polvere e le mescolò insieme. Premette la punta del mignolo sopra quel miscuglio di polveri e se lo portò alla bocca. Gli venne da piangere e la bocca andò a fuoco. Sì, era piccante decisamente al punto giusto. Unì il limone e amalgamò bene il tutto, come se stesse cucinando un’ottima pietanza. Alla fine ebbe perfino la pietà di non aggiungere né sapone né candeggina, il composto era già sufficientemente urticante. Riversò tutto nella bomboletta spray.
    Ora mancava solo la punta di diamante, l’arma che preferibilmente non avrebbe usato perché avrebbe significato fare male sul serio. Anche se probabilmente se la batteva alla pari con lo spray al peperoncino.
    Estrasse dallo zaino la racchetta anti zanzare e una spina elettrica e le posò sul bancone da lavoro che aveva già sistemato e ripulito. Aprì il manubrio e tolse l’involucro di gomma al filo della spina liberandone i fili elettrici che collegò a quelli della racchetta. Assicurò la spina al bordo del manico e richiuse il tutto. Ora aveva tra le mani un teaser fai da te.

    Il suo orologio da polso segnava le 20:45. Era seduto su una delle panchine del binario 18 preoccupato come non mai. Avevano appositamente scelto uno dei giorni lavorativi della madre, lo avevano studiato bene e sapevano che di mercoledì sarebbe riuscito facilmente a uscire di casa senza che lei ne sapesse nulla. Di riflesso strinse il cappotto attorno al corpo e percepì i vari oggetti che vi aveva nascosto dentro e nelle tasche esterne. Nella tasca destra aveva lo spray al peperoncino, nella sinistra il teaser e nelle tasche interne un termos con il ghiaccio secco e una bottiglietta con l’acqua. Aveva scaldato l’acqua più del necessario cosicché sarebbe stata della temperatura giusta per quando ne avrebbe avuto bisogno. Ora l’unica cosa che doveva fare era stare attento a non rovesciarsi addosso il ghiaccio secco, se no si sarebbe ustionato nel giro di qualche secondo. Come precauzioni aveva comunque indossato dei guanti spessi e una sciarpa per coprire all’occorrenza le cavità orali.
    La stazione era semi deserta, a quell’ora i pendolari erano ormai rientrati nelle loro case e nessuno usciva per fare baldoria in mezzo alla settimana.
    20:59

    21:00
    Una donna con due uomini ai lati ad un passo di distanza si distinguevano chiaramente sul binario. Venivano sicuri verso di lui. C’era poca gente, ma ovviamente come sapevano di sua madre sapevano anche di lui, com’era fatto. Daniele si alzò in piedi e andò loro incontro, era inutile temporeggiare.
    “Bene, bene. Sei stato puntuale. Io sono Monica.” Le disse la donna allungando la mano destra verso di lui
    Daniele la fissò per un istante e poi la strinse, provando a dare una stretta decisa ma non eccessiva. Doveva risultare sicuro di sé ma non aggressivo. La donna annuì compiaciuta, non sapeva che il ragazzo in realtà se la stava facendo sotto dalla paura. Probabilmente alla fine di tutto avrebbe vomitato e sarebbe svenuto cadendo a terra come un sacco di patate.
    “Ora che le presentazioni sono state fatte, ti pregherei di seguirmi in macchina. Il capo sta aspettando.”
    Questo non era in programma, non si aspettava di dover andare in macchina con loro. La cosa gli puzzava di trappola. “Non può venire lui qui?” osò chiedere.
    “Oh, non essere sciocco, perché dovrebbe scomodarsi quando tu poi andare tranquillamente da lui?”
    Daniele stava per riaprire bocca quando qualcuno lo anticipò. “Ehilà, Daniele. Che coincidenza incontrarti qui!”
    Quello era… Luca! Daniele strabuzzò gli occhi incredulo. Che ci faceva lui lì? Davvero era una coincidenza? E poi perché salutarlo come se fossero amiconi? Avevano parlato giusto un paio di volte.
    Luca gli si buttò praticamente addosso facendo finta di abbracciarlo in segno di saluto. Quell’abbraccio sembrò durare un eternità e prima che il ragazzone si staccasse da lui gli bisbigliò qualcosa nell’orecchio. Corri. Daniele sollevò la testa e fissò gli occhi in quelli di Luca, l’altro gli annuì serio.
    E Daniele corse. Corse a più non posso verso l’uscita della stazione.


    Capitolo 4


    Stava correndo. Stava correndo così forte che i polmoni gli bruciavano dentro al petto. Dietro di sé sentiva i passi di colui che sperava ardentemente fosse Luca, ma non osava girarsi, avrebbe perso secondi preziosi.
    Finalmente guadagnò la porta, ma a quel punto fu costretto a fermarsi qualche secondo perché non aveva idea di dove dovesse andare. Guardò indeciso a destra e a sinistra quando una mano possente lo afferrò per un braccio. Era Luca che lo stava guidando di gran carriera verso un camioncino nero.
    Il portellone laterale si aprì come per magia e, quando venne spinto dentro, nell’affanno della fuga nemmeno si accorse che l’abitacolo era già occupato niente meno che da Alessandro. Tuttavia, si sentiva la lingua incollata al palato, non riusciva a spiccicare parola. Il furgoncino partì a tutta birra quando lo sportello non si era ancora del tutto richiuso.
    “Che ne dici, andiamo tutti insieme in gita?” cercò di sdrammatizzare l’amico.
    Non lo degnò di risposta, in fondo ce l’aveva ancora un po’ con lui. Volse lo sguardo verso il guidatore e sgranò gli occhi nel vedere Marco. Ora era palesemente ovvio che quei tre erano in combutta.
    “Come facevate a sapere dov’ero?” Daniele non era stupido. Forse ingenuo e sempliciotto, ma non stupido. Si erano organizzati per quella fuga e ora tutti i vari tasselli stavano trovando il loro posto, gli mancava giusto qualcuno per poi allontanarsi a guardare il quadro generale e capirci finalmente qualcosa.
    “Ti abbiamo seguito.” Rispose semplicemente Luca. Marco mantenne un silenzio radio e Alessandro si strinse nelle spalle, forse nella convinzione che valesse come delle scuse.
    Daniele sospirò. “Ok. So quello che pensa di me la gente, dico davvero. Lo penso anche io, ma è inutile che provate a guadagnare tempo. Per pura casualità ho ascoltato diverse delle vostre conversazioni e ho notato la vostra stretta sorveglianza. Prima pensavo di sognarmi le cose, ma gli eventi di oggi mi hanno dimostrato che non è così, quindi parlate.”
    Ecco, ora che aveva fatto a sua grande uscita si sentiva svenire. Sperava di aver dato un minimo di intonazione minacciosa, ostentando un coraggio e una sicurezza che sicuramente non possedeva. Si sentiva il cuore rimbombargli nelle orecchie e le gambe di gelatina. Fortunatamente era seduto.
    Luca e Alessandro volsero la testa verso Marco. È lui quello che comanda, stabilì Daniele.
    “Tutto quello di cui hai bisogno di sapere è che stiamo seguendo degli ordini, primo fra tutti tenerti in vita. Questa cosa dovrebbe farti piacere.” Borbottò tra i denti.
    Era solo una goccia quella che gli aveva dato come risposta, una sola goccia di tutto un mare che in realtà si nascondeva dietro quelle parole, ma per il momento se lo fece bastare, almeno era riuscito a farlo parlare. Ora era un’altra cosa ciò che gli premeva. “Mia madre, dobbiamo andare da lei! Mi hanno minacciato di farle del male se non mi fossi presentato!”
    “Lo sappiamo. I telefoni di casa tua, come anche il cellulare, sono muniti di cimici. Altri agenti hanno già provveduto a prelevare tua madre dal suo posto di lavoro e a portarla in un rifugio sicuro.” Stavolta era stato Alessandro ad avergli dato quelle informazioni, forse perché essendo suo amico voleva rassicurarlo non solo con i fatti ma anche con il tono di voce. Marco non avrebbe mai avuto quel tatto e quella delicatezza.
    Daniele annuì sollevato. “Quindi stiamo andando lì? In quel rifugio sicuro?”
    “No.” Rispose secco Marco prendendolo alla sprovvista, tanto che sobbalzò sul posto. “Ma… ma è mia madre! Non posso abbandonarla così! E poi che significa? Dove mi state portando?” stava iniziando a cedere al panico. Aveva già iniziato ad iperventilare. Oddio, oddio. Un attacco di panico. Era parecchio che non mi succedeva. Che devo fare? Non vedo, non riesco a sentire niente. Non capisco-
    “DANIELE! Respira… ecco, così. Bravo. Fai dei respiri lenti e profondi.”
    Come sempre Alessandro era accorso in suo aiuto, nel frattempo nel furgoncino era sceso un silenzio di tomba. Luca fissava Daniele come se fosse stato un marziano mentre Marco guardava nervoso tutta la scena dallo specchietto retrovisore.
    Daniele si accasciò su un lato del furgoncino, portò le gambe al petto e mise la testa tra le ginocchia. Voleva tenere tutti fuori e fare finta che tutto quello non stava accadendo. Era solo un brutto sogno, un incubo, e presto si sarebbe svegliato.
    La sveglia arrivò prima di quanto pensasse, perché il mezzo inchiodò all’improvviso e si sentì catapultato in avanti. Evitò di spiaccicarsi sul fondo del furgoncino solo grazie alla presa ferrea di Luca. Daniele lo guardò stralunato, ancora scosso da tutti gli eventi e cercò di ringraziarlo con un debole sorriso che presto gli morì sulle labbra. A questo punto fu Luca a sgranare gli occhi, probabilmente per aver letto il panico negli occhi dell’altro e dopo averlo visto portarsi una mano alla bocca.
    “Oh cazzo—sta per vomitare!” sbottò facendo un salto indietro e contemporaneamente aprendo il portellone, sentendo in sotto fondo il sibilo emesso da Marco.
    Daniele non badò a nessuno dei tre, si buttò di fuori e iniziò a rimettere i succhi gastrici che gli avevano scombussolato lo stomaco. Non aveva nient’altro da far uscire, era a stomaco vuoto, non aveva mangiato a causa dell’ansia di ciò che lo aspettava alla stazione.
    “Questa è la seconda volta che vomiti mentre guido, devo dedurre che non ti piace la mia guida?” lo prese in giro Marco, con tono volutamente cattivo.
    Daniele si mise in piedi traballante. In un’occasione normale un commento del genere l’avrebbe ferito, non tanto per quello che gli aveva detto, ormai c’era abituato, ma perché significava un ennesimo passo indietro nella loro inesistente relazione. Ma in quell’occasione non riusciva nemmeno a metterlo bene a fuoco, figurarsi se poteva capire cosa stesse dicendo. Per rimarcare la sua confusione, emise un verso gutturale, a metà tra un ‘eh?’ e un nuovo rigurgito. Fortunatamente Alessandro fu subito al suo fianco, non tanto per aiutarlo a pulirsi, ma soprattutto per aiutarlo a stare in posizione eretta. Traballava pericolosamente.
    Con occhi lucidi cercò di fissare Marco, appurato ormai che era il capo e che quindi le decisioni venivano prese da lui, e gli chiese quale sarebbe stata la loro prossima mossa e perché si erano fermati.
    Vide il ragazzo dai pozzi verdi socchiudere gli occhi, come se stesse riflettendo se valesse la pena rispondergli.
    Il silenzio si protrasse talmente a lungo che Daniele fece in tempo a ricomporsi un po’ e dare un’occhiata a ciò che lo circondava. In poche parole: il nulla. Probabilmente non si era reso contro dell’effettiva durata del viaggio perché era sotto shock, ma erano decisamente usciti dai confini della città e si trovavano in una zona praticamente deserta. Mancavano solo le sterpaglie di fieno che volavano sempre nelle scene solitarie dei film western.
    Daniele continuava a volgere la testa a destra e a sinistra, ma non riusciva proprio a riconoscere quel luogo.
    Come leggendogli nella mente, Marco decise finalmente di parlare. “Siamo in una zona militare, non troverai niente e nessuno qui, a parte noi”.
    “Zo-zona militare?” chiese titubante Daniele. In effetti, riflettendoci, aveva senso. Quei tre ragazzi, più o meno suoi coetanei, avevano ricevuto l’ordine di tenerlo in vita, lo sorvegliavano con tanto di cimici e chissà cos’altro. Il fatto che fossero soldati non era poi così strano. O almeno la sua mente razionale decise di accettare e archiviare quel dato per evitare di sovraccaricarsi e bruciare.
    “Esatto. Tanto per rispondere alla tua domanda: siamo qui per fare rifornimenti, ci organizziamo e andiamo al prossimo rifugio sicuro finché non riceviamo altri ordini su cosa fare con te”.
    Bene, tutto normale, insomma. Era ancora considerato alla stregua di un oggetto. Era confortante sapere che certe cose non erano cambiate, quando nella sua vita tutto ormai era finito sotto sopra.
    Intuendo, forse, i suoi pensieri, Alessandro gli diede una pacca sulla spalla. “Dai, Dani. Andrà tutto bene”.
    Daniele annuì poco convinto, molto probabilmente anche a causa del cerchio che si sentiva alla testa. Anche solo fare quel lieve su e giù con la testa gli aveva dato l’impressione che il cervello fosse andato a sbattere contro tutte le pareti craniche.
    Senza aggiungere un’altra parola Marco prese a camminare a passo sicuro, subito seguito dagli altri componenti di quello strano gruppo.
    Daniele non aveva idea da quanto stessero camminando e perché non avessero proseguito con il furgoncino nero. In quel momento avrebbe tanto preferito essere sballottato di qua e di là pur di non camminare ancora. Si sentiva tutte le membra pesanti, metteva un piede davanti all’altro per inerzia fissando quelle appendici che non sentiva quasi più. Era stanco, sfinito e febbricitante, lo sapeva bene. Dopo diciannove anni che aveva a che fare con il suo corpo sapeva riconoscere tutti i segnali dell’imminente cedimento fisico, ma avrebbe stretto i denti e resistito il più possibile, neanche lui sapeva perché.
    Finalmente qualcuno dall’alto doveva aver sentito le sue suppliche silenziose perché la comitiva si arrestò dietro al comando di Marco e Daniele notò guardandosi intorno che la distesa sempre uguale di terra era interrotta da una botola semi nascosta dalle erbacce. A un cenno del capo di Marco, che si guardava nervosamente intorno, Luca si chinò e tirò la maniglia per aprire lo sportello. Dovette dare diversi strattoni prima che questo iniziasse a girare sui cardini, chissà da quanto tempo era rimasto chiuso. Entrarono uno alla volta, prima Luca, per accertarsi che l’interno fosse sicuro, poi Daniele, Alessandro e infine Marco, che si richiuse lo sportello alle spalle.
    Come calò il buio nella stanza in cui erano appena entrati, Daniele sentì scemare la poca adrenalina che gli era rimasta e gli permetteva di rimanere in piedi, così calò il buio anche su di lui.

    Erano in quel rifugio da due giorni, ma l’irrequietezza di Marco era indice del fatto che presto l’avrebbero abbandonato. Daniele era rinvenuto dopo qualche ora dal suo svenimento e aveva così potuto constatare che quello spazio era davvero… angusto. Aveva rischiato di svenire di nuovo a nemmeno un minuto di distanza da quando aveva riaperto gli occhi, la claustrofobia si faceva sentire con prepotenza. Se non aveva nuovamente perso i sensi lo doveva solo a Marco, il quale lo aveva schiaffeggiato fino a farlo rinsavire. A detta sua, in questo modo ci avrebbe pensato due volte prima di svenire di nuovo, come se fosse una cosa che poteva controllare e fare a comando. Ma Daniele, quasi come un bravo masochista, aveva gioito internamente per quel contatto, sapendo bene quanto fossero sporadiche le occasioni in cui poteva sentire le sue mani su di sé.
    Le ore passavano lente, i ragazzi smontavano, pulivano e rimontavano le armi a ripetizione. Avevano controllato il contenuto degli zaini un’infinità di volte. Erano enormi, secondo Daniele dentro sarebbe potuta starci anche una casa, ma il suo era di ridotte dimensioni rispetto agli altri. Mentre li stavano riempiendo con tutti gli oggetti necessari alla loro sopravvivenza, Marco si era girato a guardarlo, aveva fatto una smorfia mezza schifata e aveva smesso di riempire lo zaino di Daniele ridistribuendo le cose in quelli dei tre soldati. Daniele aveva sospirato amaramente, era consapevole che non sarebbe mai riuscito a portare il loro stesso peso. Più li vedeva seri, pronti a tutto e determinati, più lui si sentiva un inetto, una nullità. Aveva dimostrato fiducia in se stesso e determinazione quando si era preparato per andare alla stazione, ma quella era stata una parentesi in cui aveva giocato a fare il duro e più che altro aveva usato il suo cervello per distrarsi, lui non era veramente in quel modo. Lui era debole, malato, in definitiva: un peso.
    Tanto per sottolineare la cosa, quella notte aveva avuto un attacco d’asma. Non riusciva a prendere sonno, si rigirava nel letto cercando comunque di fare piano per non svegliare gli altri. Il posto era angusto, lui era stanco e aveva paura, non sapeva cosa volessero quei tizi da lui e per quanto ci fosse ricambio d’aria erano in quattro in uno spazio ristretto. L’aria gli graffiava i polmoni cercando di uscire ed entrare, ma l’unica cosa che Daniele riusciva a fare era emettere dei piccoli rantoli soffocati. Ad un certo punto temeva che sarebbe quasi morto lì, senza rivedere la propria madre, e la sua mente andò al padre. Il panico si impossessò di lui, i respiri divennero sempre più mozzati e ravvicinati, la mancanza d’ossigeno iniziava ad annebbiargli il cervello. Quando sentì la coscienza scivolare via ne fu felice, almeno per quella notte era tutto finito e non si rese conto dei tre paia di occhi che lo avevano fissato per tutto il tempo.
    La mattina dopo si sentiva uno straccio. Si mise a sedere sulla brandina gemendo, gli faceva male il petto e prese a massaggiarselo con movimenti circolari della mano destra, mentre l’altra era impegnata a stringere il bordo per permettergli di sentirsi più saldo. Quando finalmente si sentì abbastanza sicuro da mettersi in piedi, si alzò. Gli altri erano già tutti operativi, anzi, sembravano pronti ad andarsene.
    “Vestiti. Ce ne andiamo”. Fu la secca comunicazione di Marco.
    Ancora un po’ confuso annuì in silenzio, prese i vestiti che gli stava porgendo Alessandro con un accenno di sorriso sulle labbra e andò a cambiarsi nel piccolo bagno dove mai sarebbero potute entrare due persone contemporaneamente. Si guardò un po’ intorno valutando l’igiene di quel bagno. In quei giorni l’aveva usato il meno e il più velocemente possibile, non sopportava le cose sporche e quel bagno chissà da quanto tempo non veniva pulito. Il primo giorno, anche per svagare un po’ la mente, aveva chiesto dove fossero i disinfettanti per i sanitari e per risposta aveva ricevuto la grassa risata di Luca. Ora avrebbe perfino dovuto denudarsi lì dentro, non era sicuro di potercela fare. Prese a tormentarsi il labbro inferiore con i denti, mentre gli occhi saettavano su ogni superficie valutando quanto potesse essere brutta la situazione. Dove poteva appoggiare i vestiti puliti? E se una volta nudo avesse sfiorato qualcosa? Prima di potersi dare delle risposte, dei colpi secchi vennero sbattuti sulla porta, sobbalzò dalla paura. Era Marco che gli intimava di darsi una mossa ‘O ti sbrighi, o ti lascio qui’.
    A quanto pareva non aveva scelta. Chiuse gli occhi, perché era comunemente noto che ciò che non si vedeva non esisteva, e poco a poco riuscì a togliersi ogni indumento sostituendolo subito con quello pulito.
    Uscì dal bagno ansante, come se avesse corso una maratona.
    “Eccomi, sono pronto”. Con uno sbuffo, gli venne lanciato addosso il suo zaino e dopo averlo preso al volo con fatica alzò il viso per guardare la comitiva già pronta. Passò in rassegna tutti i visi, per poi fissarsi su Marco. Il suo cuore fece una capriola e sentì qualcosa smuoversi nel basso ventre. Marco era lì, davanti a lui e bello più che mai. Quei pantaloni militari gli fasciavano le gambe mettendo in risalto i muscoli sodi delle cosce e dalla maglietta a mezze maniche uscivano fuori delle braccia a cui si sarebbe avvinghiato volentieri. A confronto lui ci nuotava in quei vestiti. A quella radiografia, Marco inarcò un sopracciglio mentre Alessandro e Luca facero rispettivamente una smorfia e un ghigno divertito.
    “Ora che ti sei rifatto gli occhi, asciugati la bava e usciamo di qui. L’ordine di uscita sarà: Luca, Alessandro, Daniele ed io. Muovetevi”.
    Tutti si affrettarono a fare quanto ordinato e in due minuti erano di nuovo all’aria aperta.
    Poi passarono ben più di due minuti, due ore, due giorni. Il giorno camminavano e la notte dormivano sotto le stelle. Avevano una sola tenda, ma abbastanza grande da far star comodi tutti e quattro i ragazzi. Le temperature notturne erano ancora piuttosto piacevoli e sopportabili, ma a Daniele sembrava quasi di gelare. La prima notte l’aveva passata battendo i denti, così la seconda Marco l’aveva preso malamente per un braccio e lo aveva stretto a sé. Daniele era rimasto pietrificato temendo per tutto il tempo che anche qualcos’altro gli diventasse duro come la roccia. A detta di Marco quella era l’unica soluzione per dormire in santa pace, sentirlo battere i denti lo innervosiva, in questo modo sarebbe stato più caldo e quindi più tranquillo. Sì, tranquillo.
    Da quella volta avevano preso a dormire insieme, anche quando dormivano il pomeriggio quando le temperature erano più alte e non sarebbe stata necessaria la vicinanza dei loro corpi. Anzi, in quell’occasione Daniele si era rannicchiato solo soletto a malincuore ed era stato Marco a richiamarlo bruscamente alzando la coperta con un braccio intimandogli di infilarcisi sotto accanto a lui.
    Daniele viveva in un sogno. Era stanco, camminavano troppo, i suoi polmoni erano provati e gli capitava spesso di tossire, ma ogni volta che arrivava il momento di dormire si sentiva in paradiso. Purtroppo iniziava ad accusare la carenza di sonno, perché finché non crollava passava le ore a fissare i lineamenti di Marco e quando si sentiva abbastanza sicuro allungava le dita e sfiorava il contorno delle sue labbra con i polpastrelli. Ogni tanto l’altro si muoveva nel sonno, così si fermava e decideva di mettersi a dormire. Ogni mattina scrutava Marco per captare qualche segnale, per capire se era a conoscenza delle confidenze che si prendeva la notte, ma niente dava ad intendere che Marco si fosse accorto di qualcosa.
    Dopo aver passato un’infinità di paesini senza mai attraversarne uno, eccetto una piccola incursione di Alessandro per rifornirsi di viveri, la mattina del sesto giorno erano giunti al limitare di un bosco e Daniele già sapeva ciò che lo aspettava: addentrarvisi. Si fece coraggio con un lungo sospiro e comandò ai propri piedi di mettersi ancora una volta uno davanti all’altro in successione senza fermarsi.
    La convivenza di quei giorni era stata piuttosto piacevole e tranquilla. Dopo aver insistito molto e grazie ad Alessandro che lo aveva spalleggiato, era riuscito a fare una telefonata rapida con sua madre. Sapere che stava bene lo aveva riempito di sollievo e non aveva nemmeno badato a tutte le urla e gli improperi che le aveva rivolto per aver fatto tardi, già aveva la punizione pronta per lui quando sarebbe tornato. Daniele aveva sorriso, un sorriso un po’ abbattuto, tutto sommato era felice che sua madre fosse in quelle condizioni e non si rendesse conto della situazione. L’amicizia con Alessandro si era fatta ancora più profonda, gli aveva perdonato tutte le volte che aveva taciuto o gli aveva mentito e si dispiaceva che ogni volta che faceva gli occhi sognanti a Marco l’altro si rabbuiava. Tuttavia non poteva farci nulla, era più forte di lui. Aveva fatto amicizia con Luca, un tipo davvero allegro, ma non si rendeva conto della differenza di forza che avevano, Daniele era sempre cosparso di lividi sulle spalle per le pacche amichevoli che gli assestava ogni tre per due. Quando Alessandro era perso nei suoi mutismi della gelosia non gli restava altro che svagarsi e chiacchierare con Luca, ovviamente Marco non era un’opzione fattibile. Lui parlava solo con Luca, con Alessandro il minimo indispensabile e con Daniele giusto quando si ricordava della sua esistenza.
    Infatti, in quel pomeriggio caldo mentre cercavano di evitare le trappole del sottobosco, Luca gli stava parlando della sua arma preferita con gli occhi che si illuminavano come quelli di un bambino davanti a un giocattolo nuovo. “Allora, le classiche rivoltella sono eleganti, secondo me vanno bene solo se da collezione. Le vere pistole sono quelle automatiche! Le mie preferite sono le Glock. La Glock 17 è uno spettacolo, tieni, sentila, percepiscila”. Luca tolse la pistola che si trovava nella fondina sul fianco e la mise nelle mani di uno spaventatissimo Daniele. La prese con le mani a bacinella, ma subito dopo se la mise tra due dita tenendola lontana dal corpo, il più possibile lontana dal corpo.
    “Ehi, ehi. Tranquillo. C’è la sicura”. Altra pacca sulla spalla, presto gli si sarebbe disarticolata, già la sentiva uscire. “Anzi, ce ne sono ben tre. Questa levetta qui, vicino al grilletto, è la sicura esterna. Una volta rimossa questa ce ne sono due interne, puoi stare tranquillo che non sparerai a nessuno, tanto meno se non metti il dito sul grilletto.” Daniele alzò il viso su di lui e lo vide sorridere felicissimo, così gli venne spontaneo accennare un principio di sorriso, una specie di riflesso incondizionato. Prima di tornare alla questione pistola, volse lo sguardo per guardare gli altri due ragazzi: Alessandro lo fissava, forse un po’ in apprensione, mentre Marco era indecifrabile come al solito. Anche lui lo fissava, ma in maniera discontinua. Ogni tanto gli gettava delle lunghe occhiate ma l’espressione era di marmo, qualsiasi pensiero aleggiasse nella mante del leader rimaneva suo e solo suo.
    “Ok, quindi, che devo fare?”
    “Bene. Prendila in mano. Senti quanto è leggera? Quando uscì nei primi anni ’80 fu una vera innovazione! È stata costruita con uno speciale polimero che la rende leggera, ma non ne compromette la potenza di fuoco! Stupefacente! È anche estremamente resistente agli urti, all’usura, alle alte temperature e all’acqua!”
    “Beh, ti credo sulla parola.” Gli rispose Daniele con un sorriso timido, non sapendo come gestire tutto quell’entusiasmo.
    “Certo! Poi c’è la Glock 29, questa.” Luca si riprese la pistola e dopo averne estratto un’altra dalla fondina alla caviglia gliela porse. Era più piccola, anche se il modello era molto simile.
    “Questa la puoi considerare la figlia della Glock 20. Come vedi il calcio è molto piccolo e si può tenere con sole due dita. Anche se tu hai le mani talmente piccole che quasi ce la fai!” e rise mentre le guance di Daniele si facevano rossissime.
    “L’unica pecca, secondo me, è che questa è una calibro 10, mentre l’altra è una calibro 9, quindi sevo portarmi le scorte di entrambe le munizioni. Ma per le mie bambine questo ed altro!”
    Daniele annuì, fingendosi comprensivo, quando invece non stava capendo nulla. Però era contento che ci fosse qualcosa così speciale per lui, anche se si trattava di un qualcosa costruito per togliere la vita. Prendendo spunto da quella conversazione, allungò un po’ il passo e si avvicinò a Marco.
    “A te quali pistole piacciono?”
    “Le stesse di Luca”. Rispose laconico l’altro.
    “Mh. Per gli stessi motivi?”
    “Sì.” Marco gli lanciò un’occhiata. Probabilmente dovette sembrargli un cucciolo con le orecchie abbassate perché dopo aver sospirato riprese a parlare. “Siamo stati addestrati insieme e abbiamo imparato a ragionare allo stesso modo. Siamo partner”.
    “Oh, capisco. Però quando eravamo al rifugio ho visto che pulivi una pistola particolare, diversa da quelle che mi ha mostrato Luca…”
    “Non sono affari tuoi”.
    Detto questo, Marco fece due ampie falcate per seminarlo e Daniele si ritrovò per l’ennesima volta con la coda tra le gambe, non sapendo cosa avesse detto di male.
    Continuarono a camminare in silenzio, guardinghi. Daniele procedeva dando calci ai sassolini che si trovava davanti, concentrandosi sul loro rotolare e non sulle spalle indolenzite, sui crampi che lo torturavano all’improvviso o sul respiro affannoso. Sapeva che Alessandro lo teneva d’occhio. La sua mamma chioccia. Tuttavia non diceva niente, forse per rispetto dell’autorità di Marco. Ogni volta che voleva dire qualcosa guardava Marco, faceva una smorfia e poi scrollava la testa rimanendo zitto. L’unica cosa che aveva fatto era stata avvicinarsi il più possibile in caso Daniele avesse avuto bisogno di lui.
    In effetti l’occasione giunse poco dopo. Daniele camminava immerso nei suoi pensieri, perdendosi i raggi color arancio del tramonto che filtravano tra le fronde, i colori brillanti della natura e del sottobosco. Fu proprio questa sua distrazione a non fargli accorgere di una radici semi nascosta dalle foglie. La prese in pieno inciampando, ma le gambe non avevano la forza di sostenerlo, così con un urlo strozzato cadde a terra, iniziando a rotolare nella scarpata affianco a lui. La caduta terminò solo quando raggiunse nuovamente un terreno pianeggiante, ma si sentiva confuso e sballottato, non capiva più nemmeno da dove venivano le urla.
    “DANIELE!!!”
    Oh sì, Alessandro. Lo stava chiamando dalla cima della scarpata e stava già iniziando a discendere. Tentò di mettersi in piedi, ma la caviglia destra cedette subito sotto il suo peso facendolo ricadere a terra con un lamento sommesso.
    In meno di un minuto venne circondato dai tre soldati e con gli occhi cercò subito i pozzi verdi di Marco. Sussultò quando il suo sguardo da cucciolo bastonato venne ricambiato da uno torvo e truce.
    “Sc-scusate! Io- io- sono scivolato. Mi-mi alzo subito!”
    Non doveva essere un peso, non poteva rallentarli. Loro erano lì per lui e il minimo che poteva fare era collaborare. Strinse i denti e si rimise in piedi, aveva il respiro irregolare e il volto pallido.
    “Ci accampiamo qui per la notte” sentenziò Marco.
    Alessandro e Luca non proferirono parola, annuirono e si misero a lavoro.
    “NO! Lo giuro, posso continuare, sto be-”
    Mentre parlava, Daniele volle provare a dare la dimostrazione di poter proseguire, ma sulla parola ‘bene’ il piede gli si piegò di lato e sarebbe caduto a terra se Marco non l’avesse preso al volo.
    “Siediti”.
    “Ma io-”
    “Ho detto: siediti”.
    “Marco” lo richiamò Alessandro. “Ci penso io a Daniele, lascia fare a me”.
    “No. Aiuta Luca con la tenda e preparate la cena. È un ordine”.
    Daniele seguì quel breve scambio di battute chiedendosi perché Marco non avesse colto al volo l’occasione di sbarazzarsi di lui. Erano ancora in piedi, mezzi abbracciati, e si fissavano negli occhi. Quelli di Daniele vennero calamitati sulle labbra di Marco e involontariamente si passò la lingua sulle proprie, quasi dimentico del dolore.
    “Sei pieno di foglie in testa”.
    “Eh?” cosa aveva detto? Parlava con lui? Foglie? Quali foglie?
    “Sei pieno di foglie in testa. Credo che con la caduta, oltre che la caviglia, ti si è danneggiato il cervello” gli rispose Marco con una smorfia, quasi compatendolo.
    Marco lo trattò tutto il tempo come un bambolotto. Lo fece sedere su una roccia, gli tolse le foglie dai capelli e gli spolverò la terra di dosso. Nel frattempo borbottò tra sé e sé, maledicendo la missione assegnatagli e il fatto che era obbligato a fare tutto quello in qualità di capo, la responsabilità della sua sopravvivenza era soprattutto sua. Infine gli prese la caviglia e fece per sfilargli lo scarponcino.
    “No, lascia stare, non è niente!” tentò di fermarlo Daniele.
    “Sarò io a decidere se è grave o meno”.
    Daniele annuì mansueto, sapendo di non poter vincere contro di lui. Per tutto il tempo di quella specie di visita medica trattenne il respiro. Dormendo insieme a lui aveva già notato che la temperatura corporea di Marco era più alta rispetto alla media, probabilmente per la sua appartenenza alla Casta del Fuoco, ma sentiva distintamente scie bollenti sui tratti di pelle che venivano sfiorati dalle sue dita.
    “Nulla di grave, è una leggera storta. Però per colpa tua verremo rallentati.” Marco si tirò in piedi, estrasse una cartina da una tasca del giacchetto e rimase lì concentrato. Daniele non osava fiatare.
    “Va bene. Siamo abbastanza vicini. Possiamo permetterci di tardare di un giorno”. Annuì tra sé.
    Nel frattempo era calata la sera, la cena era pronta e Luca ed Alessandro aspettavano solo loro. Marco passo lo sguardo dai commilitoni a lui, indurì lo sguardo e rivolgendosi a Daniele gli disse di sbrigarsela da solo e andare a mangiare.
    Cenarono in silenzio, un pasto veloce e frugale, appena sufficiente a far rialzare la pressione di Daniele, ma a fargliela alzare per bene ci pensò Marco.
    “Andiamo”.
    “Dove?”
    “A dormire, domani ci sveglieremo presto per sfruttare il più possibile le ore di luce”.
    Non se lo fece ripetere due volte, si ritrovò tra le braccia di Marco senza passare dal via.
     
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    Che bello.....la tua opera mi appassiona sempre d piu' Giulia...grazie, grazie, grazie...che cucciolo Daniele mi sembra di vederlo...e Marco che fa il duro....mi intriga davvero tanto....e Alessandro che si ingelosisce anche se lo nasconde....il tutto ancora condito dal mistero piu'fitto su chi voglia fare del male a Daniele e del perche' il trio lo protegga....Non mi ero accorta ieri che lo avevi postato...argh....ma oggi ho recuperato i due nuovi capitoli....e sono sempre piu' curiosa...complimenti ancora e grazie di cuore :wub: :wub: :wub:
     
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    Sono contenta che ti piaccia tanto anche questa storia, grazie :wub:
     
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  15. kikkaza
     
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    Grazie Giulia per questi due capitoli, li leggo subito e poi ti faccio sapere....
     
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